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In ricordo di Pino Daniele

di Giovanni Fornaro
  Pino Daniele
Data di pubblicazione su web 08/01/2015  

 

Avevo cambiato l’album di un altro cantautore, appena acquistato ma poco accattivante, con Nero a metà, ed ero andato dal mio “amico del cuore” per sentirlo con lui in anteprima (era pur sempre il tempo dei miei – dei nostri – diciotto anni).

 

Ci si aprì un mondo. Ma che dannata musica era quella? Nella nostra innocenza post-puberale non capivamo se si trattasse di musica folk (nelle orecchie, ovviamente, la Nuova Compagnia di Canto Popolare), di blues (Eric Clapton), di rock, di funky o di musica italiana. Il dilemma ce lo portammo dietro per qualche altro disco di Pino Daniele, però eravamo certi che il nostro “fratello maggiore” (tale lo abbiamo avvertito, per tutta la vita) ci parlasse al cuore e che non fossero parole consolatorie quelle dei suoi testi: incazzate, piuttosto.

 

I protagonisti erano ragazzi come noi, voci di una periferia che era quella di Napoli, ma poteva essere benissimo quella di Matera, Reggio Calabria, Agrigento o Taranto. Voci arrabbiate con il mondo, con l’ottusa Italia del 1980, perbenista e benpensante, un Paese che oggi forse mitizziamo, nostalgicamente, ma che allora reprimeva il desiderio di vita e di riscatto di tanti giovani meridionali (e non) che, come noi, vivevano in un ambiente caratterizzato da un elevato degrado sociale e ambientale, lontano dalla patinata piazzetta di Capri o da via Montenapoleone. «La vita è un morso che nessuno ti fa dare», scriverà l’anno dopo Pino in Viento 'e terra.

 

E lo esprimeva urlando, il suo disagio: in quei suoi primi dischi la voce è alta, sporca, “nera”. Come piaceva a noi, che lo eleggemmo a nostra bandiera, a portavoce del nostro disadattamento, della voglia di creare il nostro futuro.

 

Fu una novità assoluta. Si pensava, ancora (nonostante la straordinaria musicalità di Battisti), che la melodia italiana non “legasse” troppo con le musiche d’altrove: i complessi ritmi afro-americani, si diceva, erano sostanzialmente estranei al nostro background culturale.

 


Pino Daniele con Massimo Troisi
 

E invece ecco una musica che contempla fra i suoi numi tutelari Aretha Franklin e Stevie Wonder, come anche i ritmi carioca e cubani, e che presto – bastava attendere il 1981, con Vai mo’ – avrebbe digerito e rielaborato, con modi molto fecondi, anche il jazz-rock dei Weather Report, mostrando una raffinatezza esecutiva e una consapevolezza artistica che il settimanale Ciao 2001 definì, con piena ragione, «swing in evolution».

 

Insomma, una miscela esplosiva e inedita per le nostre orecchie. Pendevamo dalle sue labbra a ogni disco e concerto, e da quelle dei suoi “lazzari felici”, un gruppo di musicisti d’area napoletana dalle altissime qualità artistiche, alcuni già in carriera come Tony Esposito, Tullio De Piscopo e James Senese, altri che si fecero meglio conoscere proprio con Pino (Ernesto Vitolo, Gigi De Rienzo, Agostino Marangolo, Joe Amoruso, il giovane corista Enzo Avitabile). Il mix risultante fu subito denominato dai media, già allora pronti a cannibalizzare tutto, Neapolitan Power: dopo la scuola milanese e quella genovese, era ora la città partenopea a proporre, con Pino Daniele, una gioiosa macchina da guerra il cui ariete era, insieme con una straordinaria e seminale “contaminazione” musicale, la lingua. Non il semplice dialetto ma, anche in questo caso, un curioso e vitale ibrido, fatto di “lingua” napoletana, italiano, inglese e “parlesia”, lo slang usato dai musicisti, incomprensibile a chi musicista non è. Tutto nuovo, tutto inaudito.

 

Il suo viaggio, nato discograficamente nel 1977 con l’LP Terra mia e proseguito con Pino Daniele del ’79, andò molto più in là, come si è detto. Non solo ogni disco, ma anche ogni tournée era una scoperta, un viaggio nell’ignoto. Eravamo testimoni di una ricerca musicale e linguistica perennemente in fermento, nulla era mai dato per scontato. Per il suo album “cubano” intitolato Ferryboat (1985), non aspettiamo altro che di ascoltare dal vivo la formidabile sezione di fiati (Juan Pablo Torres, Adalberto Lara, Larry Nocella). Daniele invece spiazza tutti: quando il sipario si apre, ci troviamo di fronte a un quartetto d’archi!

 

Poi c’era la sua chitarra. La brandiva da vero virtuoso, abbinando le raffinatezze strumentali a un grande istrionismo da rockstar, con assoli che, dal vivo, duravano anche venti minuti, in piedi sui woofer. Indimenticabile. Come nell’epocale concerto del 1981 di piazza Plebiscito, a Napoli, con duecentomila persone e un pool di musicisti, fra i quali Gato Barbieri e Alphonso Johnson, che nessuno è mai più riuscito a riunire.

 

Non riesco a ricordare tutti i protagonisti internazionali di quella irripetibile stagione della musica di Pino, grandi musicisti come Wayne Shorter, Eric Clapton, Gato Barbieri, Manu Katché, Jimmy Earl, Alphonso Johnson, Rachel Z, Chick Corea, Pat Metheny, Ralph Towner. Nel 1980 fu lui ad aprire il concerto di Bob Marley a Milano.

 

Furono anni di amicizie feconde, come quelle con Massimo Troisi e con Roberto Murolo, e di live serrati, torrenziali e infuocati, sostenuti da bevute sostanziose e forse da altro…

 

Una ulteriore svolta della sua vita dovrà subirla nel 1990 per gravi problemi cardiaci che lo condurranno a quattro interventi chirurgici di angioplastica coronarica.

 

Per qualche tempo fu costretto al riposo e quando volle tornare a fare concerti ci sembrò strano, dopo tanto furore esecutivo, vederlo impegnato in solo, seduto sulla sedia anche al momento degli applausi (i concerti sono documentati nel CD del 1993 E sona mo’), o nella successiva e fortunata tournée con Lorenzo Jovanotti ed Eros Ramazzotti, chiaramente imbastita anche per evitare un suo eccessivo affaticamento.

 

Venne in seguito una nuova stagione, che appartiene a una generazione diversa dalla mia perché contraddistinta da testi i quali, confrontati con la l’intensità e la pregnanza dei precedenti, ci apparivano melensi e banali. Anche la musica sembrava semplificarsi, strizzando l’occhio in più di un’occasione al popolo delle sale da ballo, ma solo all’apparenza. In realtà in questa fase della sua carriera la sua arte si esprimeva spesso in modo sottile, sotterraneo, con arrangiamenti che, analizzati in profondità, rivelano una complessità compositiva paragonabile alle canzoni degli anni ’80, ma più nascosta, meno appariscente, alimentata dagli apporti di fuoriclasse del jazz come Rita Marcotulli e Peter Erskine.

 

Negli ultimi anni Pino Daniele aveva attivato una riflessione sul suo passato più amato, rispolverando e rileggendo il repertorio del 1980-82 con i suoi partner più amati, quelli del Neapolitan Power, attraverso alcune tournèes, un bellissimo, rievocativo disco triplo (Ricomincio da 30, 2008) e la recente pubblicazione di una imperdibile extended version di Nero a metà.

 

Negli anni, ho acquistato questo ultimo disco quattro volte, due perché ne avevo consumato i solchi in vinile, una volta in cd, e ora di nuovo, perché rimasterizzato e con materiale inedito. Ho voluto riascoltarlo nel giorno della sua scomparsa, con mia figlia, scoprendo – imprevedibilmente – come ci restituisca una interpretazione vocale molto confidenziale e attuale, come se la vitalità giovanile di Daniele riuscisse nuovamente a parlarci di lui e di noi, come se cantasse ancora, qui e ora, «voglio di più, di questi anni amari».

 

So long, Pino.

 

 

 



 
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