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Riflessioni sotto l'albero. Ovvero del 55° Festival Dei Popoli, dei Social Network e di Attilio, giovane soldato (quasi) cento anni fa

di Elisa Uffreduzzi
  Silvered Water
Data di pubblicazione su web 19/12/2014  

 

Les événements humains ont sans doute deux faces.

Une face de drame et une face d’indifférence.

Tout change selon qu’il s’agit de l’individu ou de l’espèce.

Dans ses migrations, dans ses mouvements impérieux, l’espèce oublie ses morts[1].

Antoine De Saint-Exupéry, 1936


Si è da poco concluso il 55° Festival Dei Popoli (Firenze, 28 novembre – 5 dicembre 2014). Quest’anno non ho avuto modo di seguirlo assiduamente, né del resto sono mai stata una vera abituée della manifestazione, un po’ perché diventa sempre più difficile ritagliarsi il tempo per partecipare ai festival, un po’ perché il cinema documentario – lo ammetto – mi attrae meno di quello di fiction. Ho partecipato solo a una proiezione, peraltro scelta secondo l’opinabile criterio della disponibilità di tempo: nell’unica serata libera che avevo si dava sullo schermo del cinema Odeon di Firenze Ma'a al Fidda (Silvered Water), così con un’amica e collega siamo andate a vederlo. «AVVERTENZA: Il film presenta contenuti e immagini di alta drammaticità. Lo spettatore è avvisato della crudezza di alcune situazioni presentate nel film»: così il programma ufficiale metteva in guardia gli stomaci più delicati e lo stesso invito alla cautela veniva ripetuto in sala, poco prima che si spegnessero le luci. Il film è il risultato dello scambio di video, impressioni e stati d’animo, tra due giovani siriani, attraverso il web. Ossama Mohammed, emigrato in Francia nel 2011, riflette con sofferta partecipazione sui filmati che dalla madrepatria appaiono quotidianamente su internet, testimoniando guerriglia, torture, cadaveri e dolore. Simav, che in curdo significa appunto Silvered Water (acqua argentata), filma tutto quello che vede a Homs, dove vive, mettendo così a rischio la propria vita. Le conversazioni via chat fra i due (nei sottotitoli in sovrimpressione), più che commentare le immagini, le restituiscono alla loro realtà, ben lontana dalla tranquille poltrone in velluto della sala fiorentina.


Mi ritengo una persona tutt’altro che fredda e insensibile, eppure non ho pianto. Né mi sono indignata. Né credo che questa mancata reazione dia la misura della mia profondità d’animo. Ma mi spinge a interrogarmi sul valore dell’immagine oggi. E segnatamente di quella documentaria, che so - o comunque si presuppone - reale. Solo in pochi hanno lasciato la sala, forse turbati dalla crudezza del film, o forse correndo verso un altro appuntamento. Solo in pochi si sono mostrati commossi.


Davvero siamo così avvezzi alle immagini che nulla più ci tocca? Forse troppi reportage al telegiornale e troppi film d’azione ci hanno reso immuni alla commozione, assuefatti alla visione della violenza? O forse la ragione di questa indifferenza va ricercata nella scarsa qualità delle “sequenze” che – per lo più (comprensibilmente) girate nel caos, con mezzi di fortuna – risultano spesso sgranate dalla proiezione su grande schermo, diventando quasi illeggibili e perdendo dunque in efficacia oltre che in definizione. Sagome semoventi che suggeriscono soltanto, le pratiche e le situazioni raccapriccianti che ritraggono. Oppure gli avvertimenti pre-proiezione hanno sortito l’(in)volontario effetto di svilire le immagini a seguire, di edulcorarle per il delicato pubblico borghese? O forse, ed è questa la spiegazione più semplice e insieme la più agghiacciante, è una guerra che sentiamo troppo lontana perché ci possa toccare, non ci riguarda? Suppongo sia un po’ un misto di queste e altre ragioni messe insieme, ma mi viene in mente che tra qualche mese ricorre l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915) e già da un anno a questa parte si fa un gran parlare della cosiddetta Grande Guerra (1914-1918), si ricordano i caduti, si riscopre un po’ di patriottismo, si riflette sugli errori della Storia (che poi è fatta dagli uomini) e tra allori e mea culpa, inevitabilmente, si finisce per incensare anche la retorica di guerra, il mito del soldato e – che lo ammettiamo o no – la carneficina.


Così, per quegli strani percorsi d’associazione che compie la memoria, ripenso a qualche anno fa, quando nello svuotare la casa del nonno, da poco defunto, scoprivo tra le vecchie fotografie anche quella del bisnonno Attilio, che la guerra del ‘15-‘18 l’aveva combattuta. Era in una vecchia scatola da scarpe, una maniera di conservare le foto che ho spesso visto tra i vecchi di quella generazione, quand’ero bambina, e che mi parla di un tempo e una vita dura, come so esser stata quella dei miei nonni. Allora mi ero commossa, eccome, nel ritrovare quel ritratto. Un po’ perché l’occasione era di per sé già malinconica – ché svuotare la casa di un caro defunto non è certo un’attività ricreativa – un po’ perché quella foto l’avevo già vista innumerevoli volte, ma non ne conoscevo i retroscena. Ne avevo una copia in bianco e nero e adesso inaspettatamente mi ritrovavo tra le mani l’originale in un lieve color seppia, che riportava prepotentemente a galla vecchi ricordi e insieme mi presentava, forse per la prima volta, quel giovane alto e di bell’aspetto, dallo sguardo fiero della divisa che ha indosso. Era una cartolina, un ritratto in divisa militare (forse di fanteria), datata 11/11/1917. Il luogo non è ben decifrabile ma, per quel che ne ho dedotto, dovrebbe essere Retz, località della Bassa Austria. L’elegante calligrafia vergata recitava, con qualche sgrammaticatura che oggi mi intenerisce:


«ai miei cari adoratissimi genitori la di cui fortissima lontananza non fa si, che acchescermi l’affessione per essi, in attestato di un forte amore figliale offro baci in famiglia vostro figlio Attilio».


È una foto da studio, in posa, come se ne trovano tante anche in rete, in piedi con una gamba incrociata sull’altra e una mano vezzosamente appoggiata a un tavolinetto “casualmente” posto lì accanto. Credo di aver intuito allora per la prima volta che cosa dovesse essere per un ragazzo poco più che ventenne trovarsi lontano da casa, in mezzo all’orrore della guerra, Natale tra poco più di un mese, la nostalgia di casa, del tempo di pace e di una famiglia che non sapeva se avrebbe rivisto.


Me lo immagino infreddolito, con un nodo alla gola che, forse alla luce tenue di una lampada a cherosene, cerca le parole giuste, poche ma efficaci, chissà, magari interrogandosi sull’uso della virgola o di una doppia.


Non ritrae torture, sangue, cadaveri, brandelli di case, mutilati; non parla delle difficoltà quotidiane, che pure immagino innumerevoli, non un accenno alla guerra, se non nella divisa. Eppure mi tocca, al di là della retorica di guerra che sottintende mi commuove profondamente, perché sento che una parte di me, quasi cento anni fa è stata lì e ha sofferto di quel freddo e di quella nostalgia, ha sperato e forse pianto sognando il ritorno a casa. Eppure, a voler esser pignoli, anche quella è una guerra lontana, che non mi riguarda più, che non ho vissuto, che ho letto sui libri di Storia, come leggo oggi dei conflitti in Medio Oriente negli articoli di giornale. Per di più questi mi giungono documentati da immagini in movimento che so a me contemporanee e dunque, se non altro cronologicamente, più vicine. Allora cos’è che non mi raggiunge? Dov’è la differenza?


La differenza sta, per dirla con Antoine De Saint-Exupéry (Pilota di guerra, 1942), nel considerare l’individuo anziché l’uomo. In un caso considero il primo (il bisnonno e, attraverso di lui, me stessa), nell’altro poiché non riconosco l’individuo, dimentico l’uomo, dimentico la «pâte humaine» (A. De Saint-Exupéry, Lettre à un otage, 1943). Ecco allora che, tornando a Silvered Water, mi è chiaro il perché di tanta indifferenza.


Mi chiedo dunque che senso abbia, oggi, produrre immagini e che valore abbiano quelle documentarie (in movimento o meno) e il reportage di guerra. Se l’icona si è svuotata di senso, perché produrne ancora? Camus, in risposta al celebre aforisma nietzschiano «abbiamo l'arte per non morire a causa delle verità»[2] sosteneva che «l’opera d’arte […] non offre una via d’uscita al male dello spirito, ma è, viceversa, uno dei sintomi di questo male, che si ripercuote in tutto il pensiero di un uomo»[3] (Il mito di Sisifo, 1942). Ecco allora che il senso del produrre e guardare immagini oggi, se non nella ricerca della mera evasione (ma per questo c’è la fiction), mi pare si trovi piuttosto nel suo essere “sintomo”. Elemento fondamentale cioè a partire dal quale effettuare la diagnosi e di lì procedere con la cura, ammesso che ve ne siano.


Mi sono trovata spesso a riflettere sull’uso dilagante dei social network e di facebook in particolare: personalmente ne ho un’opinione piuttosto bassa, trovo in sintesi che siano un mezzo di comunicazione che dilata le distanze nell’illusione di accorciarle. Può essere utile per connettere persone e istituzioni, per tenere contatti da un capo all’altro del globo terrestre, ma non mi pare che funzioni granché sulle piccole tratte, pensando a sterili conversazioni via chat in cui, dopo aver scambiato poche battute con i presunti “amici”, non sappiamo più che dirci, semplicemente perché l’unica cosa che abbiamo in comune sono appunto e sempre di più, soltanto quegli sporadici contatti telematici. Per non parlare poi della scadente esposizione di narcisismi che offre.


Non è un giudizio morale, solo, di nuovo, la costatazione di un sintomo. Eppure la stessa rete ha consentito lo scambio di video e conversazioni tra Simav e Ossama Mohammed e ci restituisce filmati altrettanto sintomatici di conflitti altrimenti per noi invisibili. Ci dà il polso del malessere di qualcun’altro, di individui lontani, delle loro emozioni, della loro angoscia, della loro paura, delle loro ragioni, dei loro morti, dei dissidenti, dei loro giovani soldati in divisa, come il bisnonno Attilio, nel 1917.


Certo quella era una guerra di trincea, questa una cosiddetta guerra “civile”. Solo adesso però capisco di che si tratta, adesso mi raggiunge quell’emozione, ora sento che mi riguarda. Ma sono dovuta passare per il filtro della mia memoria per ritrovare la sostanza umana che fa di quell’“altro” individuo, l’uomo che era anche nel giovane soldato italiano e che, grazie a lui, riconosco in me.


È questo il senso della civiltà e in ciò ritrovo – soltanto adesso – il senso dell’immagine documentaria: «perché tutti gli altri accettino di difendere lui solo, bisogna bene che questo rappresenti qualcosa di loro stessi. E questo qualcosa è l’uomo» (A. De Saint-Exupéry, Morale de la pente, 1940[4]).




[1] «Gli avvenimenti umani hanno senza dubbio due facce. Una drammatica e una indifferente. Tutto cambia a seconda che si tratti dell’individuo o della specie. Nelle sue migrazioni, nei suoi movimenti imperiosi, la specie dimentica i propri morti»: Antoine De Saint-Exupéry, Qui si fucila come si disbosca… e gli uomini no si rispettano più a vicenda, in Lettera al generale X e il senso della guerra, traduzione di Francesca Goti, Prato, Piano B edizioni, 2014, p. 47 (da una serie di articoli scritti dall’autore durante la guerra civile spagnola per il giornale «L’intrasigeant», nel 1936).

[2] Friedrich Nietzsche, “Opere”, Adelphi, vol. VIII, tomo 3, Frammenti postumi 1888-1889, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, trad. di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1974, p. 289.

[3] Albert Camus, Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani, 2014 (1° ed. Le mythe de Sisyphe, Editions Gallimard, 1942), p. 93.

[4] Antoine De Saint-Exupéry, Morale e inclinazione, in “Lettera al generale X e il senso della guerra”, traduzione di Francesca Goti, Prato, Piano B edizioni, 2014, (1a ed. integrale: La morale de la pente, in “Écrits de guerre 1939-44”, Paris, Gallimard, 1982,  p. 109-110).


 

Silvered Water
cast cast & credits
 



La locandina del film
 Silvered Water
di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan


 
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