Les
événements humains ont sans doute deux faces.
Une
face de drame et une face dindifférence.
Tout
change selon quil sagit de lindividu ou de lespèce.
Dans ses
migrations, dans ses mouvements impérieux, lespèce oublie ses morts[1].
Antoine De Saint-Exupéry, 1936
Si
è da poco concluso il 55° Festival Dei Popoli (Firenze, 28 novembre – 5 dicembre
2014). Questanno non ho avuto modo di seguirlo assiduamente, né del resto sono
mai stata una vera abituée della
manifestazione, un po perché diventa sempre più difficile ritagliarsi il tempo
per partecipare ai festival, un po perché il cinema documentario – lo ammetto
– mi attrae meno di quello di fiction. Ho partecipato solo a una proiezione,
peraltro scelta secondo lopinabile criterio della disponibilità di tempo:
nellunica serata libera che avevo si dava sullo schermo del cinema Odeon di Firenze
Ma'a al Fidda (Silvered Water), così con unamica e collega siamo andate a
vederlo. «AVVERTENZA: Il film presenta contenuti e immagini di alta
drammaticità. Lo spettatore è avvisato della crudezza di alcune situazioni
presentate nel film»: così il programma ufficiale metteva in guardia gli
stomaci più delicati e lo stesso invito alla cautela veniva ripetuto in sala,
poco prima che si spegnessero le luci. Il film è il risultato dello scambio di
video, impressioni e stati danimo, tra due giovani siriani, attraverso il web.
Ossama Mohammed, emigrato in Francia
nel 2011, riflette con sofferta partecipazione sui filmati che dalla
madrepatria appaiono quotidianamente su internet, testimoniando guerriglia,
torture, cadaveri e dolore. Simav,
che in curdo significa appunto Silvered
Water (acqua argentata), filma tutto quello che vede a Homs, dove vive,
mettendo così a rischio la propria vita. Le conversazioni via chat fra i due
(nei sottotitoli in sovrimpressione), più che commentare le immagini, le
restituiscono alla loro realtà, ben lontana dalla tranquille poltrone in
velluto della sala fiorentina.
Mi
ritengo una persona tuttaltro che fredda e insensibile, eppure non ho pianto.
Né mi sono indignata. Né credo che questa mancata reazione dia la misura della
mia profondità danimo. Ma mi spinge a interrogarmi sul valore dellimmagine
oggi. E segnatamente di quella documentaria, che so - o comunque si presuppone
- reale. Solo in pochi hanno lasciato la sala, forse turbati dalla crudezza del
film, o forse correndo verso un altro appuntamento. Solo in pochi si sono
mostrati commossi.
Davvero
siamo così avvezzi alle immagini che nulla più ci tocca? Forse troppi reportage
al telegiornale e troppi film dazione ci hanno reso immuni alla commozione,
assuefatti alla visione della violenza? O forse la ragione di questa
indifferenza va ricercata nella scarsa qualità delle “sequenze” che – per lo
più (comprensibilmente) girate nel caos, con mezzi di fortuna – risultano spesso
sgranate dalla proiezione su grande schermo, diventando quasi illeggibili e perdendo
dunque in efficacia oltre che in definizione. Sagome semoventi che suggeriscono
soltanto, le pratiche e le situazioni raccapriccianti che ritraggono. Oppure
gli avvertimenti pre-proiezione hanno sortito l(in)volontario effetto di
svilire le immagini a seguire, di edulcorarle per il delicato pubblico
borghese? O forse, ed è questa la spiegazione più semplice e insieme la più
agghiacciante, è una guerra che sentiamo troppo lontana perché ci possa toccare,
non ci riguarda? Suppongo sia un po un misto di queste e altre ragioni messe
insieme, ma mi viene in mente che tra qualche mese ricorre lanniversario
dellentrata in guerra dellItalia (24 maggio 1915) e già da un anno a questa
parte si fa un gran parlare della cosiddetta Grande Guerra (1914-1918), si
ricordano i caduti, si riscopre un po di patriottismo, si riflette sugli
errori della Storia (che poi è fatta dagli uomini) e tra allori e mea culpa, inevitabilmente, si finisce
per incensare anche la retorica di guerra, il mito del soldato e – che lo
ammettiamo o no – la carneficina.
Così,
per quegli strani percorsi dassociazione che compie la memoria, ripenso a
qualche anno fa, quando nello svuotare la casa del nonno, da poco defunto,
scoprivo tra le vecchie fotografie anche quella del bisnonno Attilio, che la
guerra del ‘15-‘18 laveva combattuta. Era in una vecchia scatola da scarpe,
una maniera di conservare le foto che ho spesso visto tra i vecchi di quella
generazione, quandero bambina, e che mi parla di un tempo e una vita dura,
come so esser stata quella dei miei nonni. Allora mi ero commossa, eccome, nel
ritrovare quel ritratto. Un po perché loccasione era di per sé già
malinconica – ché svuotare la casa di un caro defunto non è certo unattività
ricreativa – un po perché quella foto lavevo già vista innumerevoli volte, ma
non ne conoscevo i retroscena. Ne avevo una copia in bianco e nero e adesso
inaspettatamente mi ritrovavo tra le mani loriginale in un lieve color seppia,
che riportava prepotentemente a galla vecchi ricordi e insieme mi presentava,
forse per la prima volta, quel giovane alto e di bellaspetto, dallo sguardo
fiero della divisa che ha indosso. Era una cartolina, un ritratto in divisa
militare (forse di fanteria), datata 11/11/1917. Il luogo non è ben decifrabile
ma, per quel che ne ho dedotto, dovrebbe essere Retz, località della Bassa
Austria. Lelegante calligrafia vergata recitava, con qualche sgrammaticatura
che oggi mi intenerisce:
«ai
miei cari adoratissimi genitori la di cui fortissima lontananza non fa si, che
acchescermi laffessione per essi, in attestato di un forte amore figliale
offro baci in famiglia vostro figlio Attilio».
È
una foto da studio, in posa, come se ne trovano tante anche in rete, in piedi
con una gamba incrociata sullaltra e una mano vezzosamente appoggiata a un
tavolinetto “casualmente” posto lì accanto. Credo di aver intuito allora per la
prima volta che cosa dovesse essere per un ragazzo poco più che ventenne
trovarsi lontano da casa, in mezzo allorrore della guerra, Natale tra poco più
di un mese, la nostalgia di casa, del tempo di pace e di una famiglia che non
sapeva se avrebbe rivisto.
Me
lo immagino infreddolito, con un nodo alla gola che, forse alla luce tenue di
una lampada a cherosene, cerca le parole giuste, poche ma efficaci, chissà,
magari interrogandosi sulluso della virgola o di una doppia.
Non
ritrae torture, sangue, cadaveri, brandelli di case, mutilati; non parla delle
difficoltà quotidiane, che pure immagino innumerevoli, non un accenno alla
guerra, se non nella divisa. Eppure mi tocca, al di là della retorica di guerra
che sottintende mi commuove profondamente, perché sento che una parte di me,
quasi cento anni fa è stata lì e ha sofferto di quel freddo e di quella
nostalgia, ha sperato e forse pianto sognando il ritorno a casa. Eppure, a
voler esser pignoli, anche quella è una guerra lontana, che non mi riguarda
più, che non ho vissuto, che ho letto sui libri di Storia, come leggo oggi dei
conflitti in Medio Oriente negli articoli di giornale. Per di più questi mi
giungono documentati da immagini in movimento che so a me contemporanee e
dunque, se non altro cronologicamente, più vicine. Allora cosè che non mi
raggiunge? Dovè la differenza?
La
differenza sta, per dirla con Antoine De Saint-Exupéry (Pilota di guerra, 1942), nel considerare lindividuo anziché
luomo. In un caso considero il primo (il bisnonno e, attraverso di lui, me
stessa), nellaltro poiché non riconosco lindividuo, dimentico luomo,
dimentico la «pâte humaine» (A. De Saint-Exupéry, Lettre à un otage, 1943). Ecco allora che, tornando a Silvered Water, mi è chiaro il perché di
tanta indifferenza.
Mi
chiedo dunque che senso abbia, oggi, produrre immagini e che valore abbiano quelle
documentarie (in movimento o meno) e il reportage di guerra. Se licona si è
svuotata di senso, perché produrne ancora? Camus, in risposta al celebre
aforisma nietzschiano «abbiamo l'arte per non morire a causa delle verità»[2]
sosteneva che «lopera darte […] non offre una via duscita al male dello
spirito, ma è, viceversa, uno dei sintomi di questo male, che si ripercuote in
tutto il pensiero di un uomo»[3] (Il mito di Sisifo, 1942). Ecco allora
che il senso del produrre e guardare immagini oggi, se non nella ricerca della
mera evasione (ma per questo cè la fiction),
mi pare si trovi piuttosto nel suo essere “sintomo”. Elemento fondamentale cioè
a partire dal quale effettuare la diagnosi e di lì procedere con la cura,
ammesso che ve ne siano.
Mi
sono trovata spesso a riflettere sulluso dilagante dei social network e di
facebook in particolare: personalmente ne ho unopinione piuttosto bassa, trovo
in sintesi che siano un mezzo di comunicazione che dilata le distanze
nellillusione di accorciarle. Può essere utile per connettere persone e
istituzioni, per tenere contatti da un capo allaltro del globo terrestre, ma
non mi pare che funzioni granché sulle piccole tratte, pensando a sterili
conversazioni via chat in cui, dopo aver scambiato poche battute con i presunti
“amici”, non sappiamo più che dirci, semplicemente perché lunica cosa che
abbiamo in comune sono appunto e sempre di più, soltanto quegli sporadici
contatti telematici. Per non parlare poi della scadente esposizione di
narcisismi che offre.
Non
è un giudizio morale, solo, di nuovo, la costatazione di un sintomo. Eppure la
stessa rete ha consentito lo scambio di video e conversazioni tra Simav e Ossama
Mohammed e ci restituisce filmati altrettanto sintomatici di conflitti
altrimenti per noi invisibili. Ci dà il polso del malessere di qualcunaltro,
di individui lontani, delle loro emozioni, della loro angoscia, della loro
paura, delle loro ragioni, dei loro morti, dei dissidenti, dei loro giovani
soldati in divisa, come il bisnonno Attilio, nel 1917.
Certo
quella era una guerra di trincea, questa una cosiddetta guerra “civile”. Solo adesso
però capisco di che si tratta, adesso mi raggiunge quellemozione, ora sento
che mi riguarda. Ma sono dovuta passare per il filtro della mia memoria per
ritrovare la sostanza umana che fa di quell“altro” individuo, luomo che era
anche nel giovane soldato italiano e che, grazie a lui, riconosco in me.
È
questo il senso della civiltà e in ciò ritrovo – soltanto adesso – il senso
dellimmagine documentaria: «perché tutti gli altri accettino di difendere lui
solo, bisogna bene che questo rappresenti qualcosa di loro stessi. E questo
qualcosa è luomo» (A. De Saint-Exupéry, Morale
de la pente, 1940[4]).
[1] «Gli avvenimenti umani hanno
senza dubbio due facce. Una drammatica e una indifferente. Tutto cambia a
seconda che si tratti dellindividuo o della specie. Nelle sue migrazioni, nei
suoi movimenti imperiosi, la specie dimentica i propri morti»: Antoine De
Saint-Exupéry, Qui si fucila come si
disbosca… e gli uomini no si rispettano più a vicenda, in Lettera al generale X e il senso della
guerra, traduzione di Francesca Goti, Prato, Piano B edizioni, 2014, p. 47
(da una serie di articoli scritti dallautore durante la guerra civile spagnola
per il giornale «Lintrasigeant», nel 1936).
[2]
Friedrich Nietzsche, “Opere”, Adelphi, vol. VIII, tomo 3, Frammenti postumi 1888-1889, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, trad. di
Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1974, p. 289.
[3]
Albert Camus, Il mito di Sisifo, Milano,
Bompiani, 2014 (1° ed. Le mythe de
Sisyphe, Editions Gallimard, 1942), p. 93.
[4] Antoine De Saint-Exupéry, Morale e inclinazione, in “Lettera al
generale X e il senso della guerra”, traduzione di Francesca Goti, Prato, Piano
B edizioni, 2014, (1a ed. integrale: La morale de la pente, in “Écrits de guerre 1939-44”, Paris, Gallimard, 1982, p. 109-110).
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