Dopo il debutto al Festival di Napoli, giova allo spettacolo la tournée che lo porta nella sede di coproduzione. Al Teatro della Corte di Genova, la rappresentazione attrae per lequilibrio tra recitazione e ambientazione visiva e per laffiatamento fra i membri della Compagnia di variegati talenti, costituita alloccasione. La centralità del protagonista Antonio Barracano trova nellautorevolezza umile e potente di Eros Pagni il nucleo da cui irradiare energia espressiva in ogni comprimario. Lallestimento dimostra la bellezza durevole duna drammaturgia allitaliana con radici partenopee spiccate, eppure ben fruibile, mezzo secolo dopo la creazione, dallo spettatore di oggi che ne apprezza la tessitura nelle singole figure e nelleffetto complessivo, grazie alle virtù di chiarezza, emozione e sollecitazione etica. La “napoletanità” (in forza anche della composizione del cast) è ora presente come intonazione linguistica di riferimento, ma nessun componente della messa in scena mira a sottolinearne la provenienza locale. Né la personalità inconfondibile dellautore pregiudica loriginalità degli interpreti che appaiono liberamente inventivi sia per i caratteri umani, sia per la tematica rimasta socialmente e culturalmente attuale. La scenografia di Guido Fiorato, di razionalità geometrica, omogenea nelle tinte chiare, grigie e nere, astrae dalla topografia e dalliconografia regionali, dando spazio a un luogo semplificato, polivalente, nel salone a finestre laterali col grande lucernaio al soffitto e una porta sul fondo. La musica di Andrea Nicolini invade discretamente il locale, con volute malinconiche (chitarra, pianoforte e archi). La luce di Sandro Sussi lo definisce al passare del tempo con contrasti pittorici e sfumature molto efficaci.
Inizia in casa, presto di mattina, il movimento aperto dalla governante Immacolata e nutrito dai visitatori, programmati o inattesi. Ecco Antonio Barracano, il “Sindaco” del rione malfamato, pure in ritiro estivo, intrattenersi col mondo della malavita marginale, per regolarne, a sua consacrata discrezione, i comportamenti e le decisioni nei quotidiani intrallazzi e incidenti. È il sogno (o illusione) del camorrista vecchio stampo (sè formato in America) mediatore di liti, soprusi e sgarri con lautorità carismatica conquistata sul campo; eredità e frutto duna malintesa onestà al servizio duna giustizia personale, alternativa alla legalità incompleta o distorta.
Un momento dello spettacolo
© Agenzia Cubo
Ladattamento del testo mostra lievi ma apprezzabili varianti (oltre alla soppressione di personaggi davvero minori). In apertura, con tutti gli attori seduti sul fondo, al centro sta Barracano solo, a recitare una riflessione assorta sulla propria morte già preconizzata e databile (magari già avvenuta), inserita in notazioni (tratte dalla didascalia originale) sul panorama circostante. Nel finale, il Sindaco non viene accompagnato in camera dal dottore per morirvi, ma spira sulla sedia da cui ha assistito alla cena dei suoi convitati. Restando in scena, diviene più pregnante emblema di sofferenza e segno di contraddizione, secondo una laica pietà, per una catarsi aperta alla speranza. Così il Terzo Atto, che denunciava qualche divagazione didattica rispetto allincalzare del processo drammatico, è ravvivato da questa estrema situazione in cui il giudizio di condanna del morente si abbatte sui vizi dei vivi. E suona al tempo autocritica, scelta di nuova via di contrasto allingiustizia, con la chiamata alla corresponsabilità, a cui risponde anche il Della Ragione. Il complice ravveduto non fugge come aveva progettato, né travisa i fatti, ma denuncia i veri colpevoli. Sul trasparente nero che vela larco scenico, appare allultima calata la scritta: «La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale – W. Shakespeare». Così più esplicita, la regia estende alluniversale il respiro della commedia drammatica. Ma già a rendere quella tensione era bastata la sobria e incalzante vicenda (a volte comica) degli incontri, conflitti e confessioni negli episodi gestiti dal singolare paciere. In essi spiccano la soluzione rituale e mimica, bel gioco di mistificazione e ipocrisia, scelta per sanare la controversia nata da un patto usuraio. Fino allirriducibile dissidio fra un figlio e un padre (i Santaniello, panettieri) per risolvere il quale Barracano affronta lestremo rischio e trova la morte. Anche perciò la «speranza in un mondo più migliore» si rivela illusione, o riprovevole inganno, dando al riconoscimento e allaccettazione del sacrificio valore di riparazione della colpa e del suo danno. Fra i quindici interpreti, tutti da lodare, scelgo in Federico Vanni, nel ruolo del più diretto interlocutore del Sindaco, lesempio di adesione al personaggio, per la passione e la consapevolezza progressiva, manifestate nel contrasto incessante e il confronto di idee e sentimenti col suo boss delezione.
Per questopera non tanto misurata da ottimismo o pessimismo, ma da persistente ambiguità, mi pare chiara e adeguata la lettura del regista che, stemperando estremismi ammissibili ed evitando troppo concilianti convergenze, fa apparire il ruolo, che il Poeta preferiva, come uno fra gli «ossimori viventi» – secondo Anna Barsotti - costitutivi dei suoi personaggi maggiori. Il tema dellopera è infatti per Sciaccaluga «il rapporto tra la legge e la giustizia. Barracano è un grande personaggio teatrale, che rinvia innanzi tutto a se stesso, è un santo criminale che in un certo senso anticipa Il Padrino di Brando/Coppola». Proposta che convince lo spettatore e lo lascia, al termine dello spettacolo lungo due ore e mezzo, curioso degli sviluppi immaginari e dialettici assumibili dalla vicenda tanto simbolicamente partecipabile e vera.
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