«Stanotte mi sono fatto un sogno» è il leitmotiv di Pasquale Grifone (Luca De Filippo), protagonista di questo “prezioso” Sogno di una notte di mezza sbornia, ed è anche quello di Alberto Saporito (Toni Servillo) sognatore di Le voci di dentro. Da una piazza allaltra ecco lammicco sornione del De Filippo junior, nuovo e diverso sognatore, al collega pluripremiato. Tutto nel corso della stessa stagione! Ben venga allora la strizzatina docchio quando si tratta di sfide di qualità; a vincere è sempre il pubblico che entra finalmente a contatto con la miniera inesauribile e tutta da riscoprire del Maestro Eduardo.
Sogno di una notte di mezza sbornia è una commedia farsesca che a ben vedere, in largo anticipo sul capolavoro della maturità che sarà Le voci di dentro, si pone come esempio precoce di commedia onirica nel teatro di De Filippo. Un mondo in bilico tra sogno e realtà, presente e futuro, miseria e ricchezza, integrità e degrado è il contesto che Eduardo ricava nel 1937 da La fortuna si diverte, scritta da Athos Setti nel 1933 per la scena toscana. Luca De Filippo affida la regia di questo delicato ingranaggio a Armando Pugliese che maneggia il materiale in questione con labilità di uno mastro di ceramica: modellando con le dite e rifinendo col pennello.
Così, ad apertura di sipario in scena si muovono della statuine di Capodimonte – che non a caso spesso si rifacevano a soggetti teatrali – impegnati in faccende quotidiane e avvolti in una atmosfera eterea da caldo dopopranzo: quel momento del giorno tra il sopore e il caffè in cui, su una pedana inclinata verso la platea, precipita questo Sogno. Attori e attrici in scena danno corpo proprio a quei personaggi della farsa partenopea, e non, che riempiono limmaginario comune: Donna Filomena (Carolina Rosi) è Pantalone, “spilorcia” padrona di casa; Carolina (Carmen Annibale), la comare, è un vecchio Brighella tutto strategie e secondi fini. Il figlio Arturo è un Arlecchino bamboccione e la figlia una Colombina secca secca che gioca a fare lInnamorata. Sotto lo sguardo severo dell“effigie” del Dante-San Gennaro (un busto di gesso che domina la parete di fondo), la farsa si snoda ora in uno stile delicato e rarefatto da commedia dellarte settecentesca, ora si colora di gesti simbolici partenopei (il segno delle corna è ricorrente in questa farsa che si struttura sulla fortuna e sulla superstizione) e voci dal vico.
Un momento dello spettacolo con Luca de Filippo.
Foto di Federico Riva
Il gruppo aspetta lentrée di Pulcinella (Pasquale/De Filippo), maschera napoletana per eccellenza, che con fare dondolante, ovattato, morbido guadagna lattenzione del pubblico, attraversando la passerella che la pedana inclinata lascia libera in proscenio. Lo spazio così concepito consente un gioco tra dentro e fuori utilizzato per evidenziare appunto le entrate. Attraverso lalternanza di violento-dolce, aggressivo-delicato si struttura il profilo del nostro Pulcinella sbeffeggiato dal destino: i numeri a lui rivelati durante il sonno gli conferiscono la ricchezza del sogno milionario e lincubo della morte. Luca De Filippo calza con conquistata autonomia questa “maschera”, discostandosi finalmente dallo spettro paterno pur puntellando ogni tanto la sua recitazione di rimandi eduardiani: mugolii, paroline balbettate, pause prolungate. Dalla rivelazione nefasta e fino allimmobilità del finale lallusione alla morte sarà resa da una “bella melodia” che sottolinea l‘a parte di Pasquale, una danza macabra e suadente che rappresenta il volo di un angioletto verso il cielo.
Pulcinella è anche il trait dunion fra il primo e secondo atto. La scena cambia, cambia la casa di Pasquale, ora un ricco interno borghese e cambia il quartiere in cui questa famiglia arricchita va a vivere. Il fondale dipinto che prima mostrava dei balconi con le lenzuola stese proprio a ridosso della parete consacrata a Dante, muta in una veduta dallalto sui tetti di Napoli. Tutto è distante dalla miseria e tutto avvicina a una miseria di tipo diverso: umana, affettiva.
La farsa sembra evolvere in un dramma grottesco intriso di comicità travolgente ma estremamente nera. La vita della famiglia si svolgerà in una perenne notte e anche giunti al momento fatidico, le 13 del giorno della morte di Pasquale, la notte dominerà la scena. Il lusso sembra non voler ammettere la tristezza, le ansie del povero condannato sono sottovalutate o strumentalizzate e ‘sta schifezza ‘e famiglia si mostra a Pasquale in tutta la sua galleria di orrori.
Persino la lingua cambia: più mordace si fa il gioco tra dialetto e italiano. Ormai nobili i componenti della famiglia, in primis Donna Filumena, pretendono di utilizzare litaliano scadendo in gaffe e quiproquo dalleffetto comico assicurato. Solo Pulcinella, si diceva, rimasto se stesso, sugella il lento finale con una straordinaria prova dattore: Luca De Filippo in La morte in poltrona di Pulcinella, potrebbe chiamarsi così questo quadro che regala al pubblico un assolo di 5 minuti tecnicamente irreprensibile.
Come finisce ci si chiederà allora? La domanda si perde nel sipario che cala sulla maschera terrorizzata di Pulcinella bloccato davanti ad una ricca lasagna… 4 - 52 -13 -90 sono i numeri che Dante ha consigliato in sogno a Pasquale, seguendo con rigore le regole della Smorfia napoletana “la maschera della paura” (90) getta un velo di incertezza su questo Sogno divertente e bien joué.
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