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La pedalata delle valchirie

di Paolo Patrizi
  Der Ring des Nibelungen
Data di pubblicazione su web 25/08/2014  
                             

Se Gustav Kuhn mirava a entrare nel Guinness dei primati quando – una decina di anni fa – diresse a Erl il Ring in ventiquattr’ore, ci è pienamente riuscito. E adesso fa il bis. Da circa tre lustri, nel suo feudo del Tiroler Festspiele – tra poche case sparpagliate, pascoli di mucche e le montagne davanti – il direttore austriaco dà vita a una sorta di anti-Bayreuth, e non solo perché questo Wagner tirolese non ha nulla della sacralità del Tempio di Richard in terra di Baviera: se in quel santuario musicale si arrivò alla cosiddetta orchestra invisibile, con il golfo mistico nascosto sotto una lamina di legno, qui abbiamo un’orchestra a vista, alle spalle dei cantanti. E se Bayreuth resta all’insegna dello star system registico-vocale, a Erl abbiamo regie fatte in casa e cantanti personalmente forgiati dal direttore. Con gli anni i cartelloni si sono aperti ad altri autori, ma “Wagner tra le mucche” (come insegna il logo del festival, dominato da un’inconfondibile silhouette quadrupedica) resta il cuore della programmazione, al punto di ritentare quest’anno l’impresa del 24-Stunden-Ring. Senza stanchezza apparente da parte di nessuno.


Si potrà discutere se le ore siano davvero ventiquattro: L’oro del Reno, in quanto prologo, è andato in scena da solo la prima sera, mentre il tour de force è iniziato l’indomani, con Valchiria alle cinque del pomeriggio, Sigfrido alle undici e Crepuscolo la mattina seguente. In ogni caso, la maratona resta epocale: e chi non aveva modo di raggiungere casa o albergo nelle poche ore di sonno concesse tra Sigfried e Götterdämmerung poteva riposare nelle comodissime sdraio messe a disposizione (la rigidità degli schienali del Passionsspielhaus, per contro, inibiva qualunque eventualità di abbiocco durante gli spettacoli). Appisolarsi, d’altronde, era pressoché impossibile: l’adrenalina circolava in platea come in palcoscenico, anche perché Kuhn prende con intelligenza le misure, evitando di far partire subito la macchina a pieno regime. Conscio che non si può pretendere dall’orchestra un rendimento costantemente alto per sedici ore di musica (tanto dura più o meno il Ring, intervalli esclusi), inizia con un Rheingold leggermente sottotono: il preludio si raccomanda più per nitidezza dell’appiombo che per capacità di evocare un’era primordiale, la tempesta di Donner appare un po’ diluita nel suo slancio. E anche i passi deflagranti della Walküre – il clima da tregenda su cui si apre il primo atto, la stessa cavalcata – sembrano molto controllati: la bacchetta, semmai, tende ad abbandonarsi nei momenti di contemplazione lirica.


Dal Sigfried il percorso si fa in discesa e l’orchestra del Tiroler Festspiele (non vi mancano elementi italiani) si trasforma da ensemble corretto e professionale a compagine di gran classe. Anche a prescindere dal livello – davvero eccellente – del corno solista, impressiona la fluidità con cui Kuhn e i suoi strumentisti dipanano l’elaboratissima investigazione timbrica della partitura, si tratti dei bagliori corruschi della fucina nel primo atto o dei colori limpidi evocati nella scena della foresta. Mentre nel Crepuscolo degli dei colpisce, più che il talento evocativo, la capacità narrativa dell’orchestra: la mastodontica struttura viene sciorinata in ogni segmento, compreso quell’aspetto più tradizionalmente operistico (anche da Grand-opéra, a tratti) che spesso sfugge alle letture troppo immerse nel flusso del puro dramma musicale. D’altronde – senza nulla togliere al sostrato filosofico del Bühnenfestspiel – per Kuhn il Ring è soprattutto racconto. E anche come regista sembra orientarsi per la stessa strada.
 

Foto di Franz Neumayr


La sorpresa più lieta, forse, è proprio questa: Kuhn – che in passato, dividendosi tra podio e cabina di regia, ha un po’ compromesso la bontà degli esiti raggiunti come direttore – qui rivela una notevole mano registica. Felicemente coadiuvato da Jan Hax Halama, autore degli elementi scenici della mise en espace, pure sul piano visivo realizza una Tetralogia di grande sensibilità: per la naturalezza con cui risolve il problema di un’orchestra in palcoscenico (poste in cima alla gradinata che accoglie gli strumentisti, le sei arpe del Rheingold paiono evocare la rocca del Walhalla, così come nel finale della Walküre le arpiste rossovestite ai piedi di Brunilde addormentata diventano la quintessenza dell’incantesimo del fuoco); per gli input minimali, ma sempre efficaci, sulla recitazione dei cantanti; e perché certi affondi parodistici (il forzuto Sigfrido con orsacchiotto di peluche, le valchirie in bicicletta anziché a cavallo…) non hanno, al contrario di tanti Ring alla moda, nulla di dissacratorio, ma solo il sorriso rigeneratore di chi si diverte attorno a ciò che ama.

 

Ciò che più resta nella memoria di questo spettacolo-fiume, però, è la consapevolezza della dimensione favolistica del Ring des Nibelungen, la capacità di far dialogare l’èpos wagneriano con l’infanzia. Più che Wotan o Brunilde, sono proprio i bambini che Kuhn impiega come servi di scena gli autentici protagonisti (bravissimi i piccoli figuranti, compreso uno di colore a testimonianza dell’ecumenismo delle fiabe): da un lato raddoppiando quel “sentimento della natura” che, soprattutto nel Siegfried, è forse la più profonda tra le tante percezioni instillate da Wagner, dall’altro consentendo di risolvere in modo sbarazzino e teatralissimo certe didascalie improponibili dei libretti (qui è una delle bambine, e non la mano semovente del cadavere di Sigfrido, a impedire a Hagen di accostarsi all’anello). Sicché il sipario non cala sul rogo del Walhalla, ma sui bimbi che riprendono a tessere il filo reciso dalle Norne: gli dei sono tramontati, ma un futuro – per le fiabe e per gli uomini – c’è ancora.


I solisti (quasi quaranta) sono, inevitabilmente, di valore diseguale, ma solo per il Donner di Frederik Baldus si può parlare di una prova davvero deficitaria. Volendo assegnare gli Oscar ai migliori interpreti non protagonisti, spetterebbero alla Fricka di Hermine Haselböck e all’Alberich di Thomas Gazheli: la prima è una dea umanissima nelle sue più ossessive e animose pulsioni femminili, seducente negli abiti di signora borghese nell’Oro del Reno come in quelli di cavallerizza fetish nella Valchiria, e di linea vocale perfettamente controllata pure nei momenti di maggior furore; il secondo unisce uno strumento robustissimo di Heldenbariton a una formidabile duttilità scenico-canora, facendo della maledizione di Alberich il momento più riuscito non solo del Rheingold, ma di tutte le ore di spettacolo.
 

Foto di Franz Neumayr


Lo ritroviamo quale Wotan nel Sigfried: sempre notevole per vigore e compattezza, ma non altrettanto malleabile, anzi fin troppo monolitico nel suo tagliente declamato (a farsi carico di Alberich qui è il veterano Oskar Hillebrandt, che sopperisce a una voce piuttosto logora con l’espressività dell’accento e un gioco di portamenti tanto efficace quanto insolito, nel canto wagneriano). Per quanto riguarda gli altri due Wotan, Vladimir Baykov, in Valchiria, non appare sempre in regola con l’intonazione, ma s’impone per pregnanza espressiva. Michael Kupfer, nel Rheingold, è baritono più corretto, ma anche più pallido: trova la sua dimensione migliore, e una bella compenetrazione, nell’ultima giornata, quando affronta Gunther. Le Brunildi vanno invece dall’ottimo (memorabile l’intensità cristallina e la bellezza stupefatta di Nancy Weißbach al momento del risveglio) al volenteroso (Bettine Kampp e Mona Somm); e impressiona l’autorevolezza vocale della giovane Marianna Szivkova nei panni di Sieglinde.


Detto che il nome più illustre in locandina – Franz Hawlata nei panni di Fasolt – è in cattiva forma ma si riscatta con la classe e l’esperienza, mentre Andrea Silvestrelli, troppo ingolato come Fafner, rende con efficacia l’odiosità di Hagen, restano i tenori. Il Loge sapido (però tutt’altro che in taglia da caratterista) di Johannes Chum e il Siegmund più lirico che eroico (ma non sottodimensionato) di Andrew Sritheran lasciano – come spesso accade – un ricordo migliore dei Sigfridi: Michael Baba arriva senza voce al chilometrico duetto che chiude il Sigfried (resta da vedere chi avrebbe la forza di cantarlo alle quattro del mattino…), mentre Gianluca Zampieri non va incontro alla défaillance del collega, ma l’interprete appare più approssimativo. Tutti, comunque, meritano di essere accomunati nel successo di uno spettacolo che è stato, al contempo, una sfida e una festa.



Der Ring des Nibelungen

Das Rheingold
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Die Walküre
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Sigfried
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Götterdämmerung
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