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Un neoclassicismo fiabesco

di Paolo Patrizi
  La donna serpente
Data di pubblicazione su web 25/08/2014  

 

Ci sono dei grandi cui, per essere grandissimi, è mancato il senso delle proporzioni e della Storia. La querelle che oppose Carlo Gozzi a Goldoni – uno scontro di metodi, prima che di arte, paragonabile a quello che parallelamente, nella musica, opponeva gluckisti e piccinnisti – è oggi un reperto museale: non perché il tempo si è pronunciato, inequivocabilmente, a favore del teatro goldoniano, ma per la genericità della polemica innescata da Gozzi. Attaccare il realismo comico propugnando un ritorno al fantastico più macchinoso e irrazionale non è, sotto il profilo estetico, una posizione perdente a priori: lo diventa se si fa d’ogni erba un fascio e si mette sotto lo stesso ombrello – come appunto faceva Gozzi – le commedie di Goldoni e quelle di Pietro Chiari. E non sarà un caso se Alfredo Casella, dopo aver affettato per anni diffidenza verso il mondo del melodramma, si rivolgerà proprio a un testo di Gozzi per il suo primo esperimento operistico. Al pari del commediografo veneziano, pure il compositore torinese era vittima delle proprie idiosincrasie fino al qualunquismo: si potrà anche propugnare, come lui faceva, un ritorno al teatro musicale delle origini; ma stroncare indifferentemente l’opera ottocentesca italiana, il dramma musicale wagneriano e l’ondata verista sembra il sintomo di una certa impotenza creativa, oltre che di un’umanissima invidia.

 

Frutto di un neoclassicismo tutto di testa, dove la musica è un valore assoluto e l’azione non ha dignità autonoma ma è al massimo un commento della musica stessa, l’«opera fiaba» La donna serpente (1932) alterna un generico declamato lirico a un recitar cantando paramonteverdiano (con interventi quasi madrigalistici del coro), innestandoli su un antipsicologismo di marca rossiniana (ma senza l’anarchia di Rossini): tutto sommato una puntuale traduzione in musica dell’estetica di Gozzi, che restituisce l’immaginosità programmaticamente meccanica del suo teatro. I grandi primi piani orchestrali – sinfonia, interludi, marce – restano però i momenti più appaganti, a conferma della vocazione di Casella verso la musica strumentale, imprimendo al lavoro il respiro d’una grande suite sinfonico-vocale e un andamento quasi pantomimico. Una drammaturgia musicale, insomma, che è una sfida problematica per qualunque regista.

 

Arturo Cirillo vince la scommessa e trova nello spazio angusto del palcoscenico del cortile di Palazzo Ducale a Martina Franca non un limite, ma un’ulteriore sollecitazione visiva. Grazie anche alle scene stilizzate di Dario Gessati e ai costumi semplici e coloratissimi di Gianluca Falaschi realizza un ottimo esempio di teatro povero e fantastico, fortemente materico nel lavoro sul corpo dei mimi-danzatori che danno forma a sogni e paure insite nella favola: bastano delle mani nere appese nel vuoto per evocare animali inquietanti, bastano dei piedi che emergono all’insù come dal nulla per trasmettere il senso d’una presenza irreale. Il teatro di macchine e la grandeur gozziana cedono il passo a un’antica sapienza artigianale, mentre il lavoro sulla recitazione dei cantanti mira a modulare lo spazio piuttosto che a delineare maschere e caratteri. Gli innumerevoli personaggi del libretto, infatti, sono più o meno tutti centrifughi rispetto alla vicenda centrale, ma senza che questo si traduca in autentiche storie parallele, né in figure che s’imprimono nella memoria dello spettatore: e Cirillo – da regista consapevole – rinuncia a una delineazione icastica dei singoli ruoli, in favore di una “polifonia visiva” tanto elementare quanto catturante.


 


Foto Laera


 

Fabio Luisi – che aveva mosso i primi passi professionali proprio al festival martinese, e oggi vi ritorna da divo del podio – offre una lettura di estrema precisione, come si conviene alle geometrie musicali di Casella. L’Orchestra Internazionale d’Italia risponde con zelo e professionalità: il suono è a tratti un po’ scabro e angoloso, alla Šostakovic (senza però le sue acidità timbriche) più che alla Stravinskij (che per Casella fu una sorta di stella polare), ma quanto si perde in levigata rarefazione viene compensato dall’affilata nettezza dei profili ritmici. Quanto al coro, la partitura lo pone spesso in primo piano: e quello della Filarmonica di Cluj-Napoca (un felice nuovo acquisto per Martina Franca) è un ensemble di alto livello tecnico ed espressivo.

 

Cast nell’insieme assai apprezzabile: a cominciare dal lirismo intenso e misurato della protagonista Zuzana Marková, anche molto musicale, come dimostra la saldezza dell’intonazione nel canto a cappella fuori scena – la pagina vocalmente più suggestiva – che apre l’ultimo atto. Meno in ordine l’emissione di Angelo Villari, soprattutto quando tenta (senza troppo costrutto: siamo pur sempre nel mondo delle favole…) di trasformare il personaggio del re Altidòr da tenore lirico-spinto a tenore eroico. Il quartetto delle maschere (debitore del tris Ping-Pang-Pong di Turandot e del poker Arlecchino-Scaramuccio-Truffaldino-Brighella di Ariadne auf Naxos, ma senza l’icasticità degli uni e la stilizzazione degli altri) è ben servito dal Tartagìl fanciullesco e birichino di Timothy Oliver e dal Pantùl spossato e paterno di Pavol Kuban, oltre che dall’eleganza stilistica dell’Alditrùf di Simon Edwards e dall’inopinata robustezza (a prezzo però d’un timbro che si è fatto assai metallico) dell’Albrigòr di Domenico Colaianni.

 

Energico nella declamazione, ma sottilmente accorato nell’accento, Carmine Monaco rende bene la dissociazione del Re delle fate, diviso tra tirannica inflessibilità e malinconica affezione. Candida Guida è un’amazzone debitamente grintosa e Davide Giangregorio appare corretto, ma anche un po’ pallido, nei panni del ministro fedele, laddove Giorgio Celenza pennella con giusta untuosità il cammeo del ministro infedele. Citare gli interpreti uno a uno sarebbe però tanto doveroso quanto, nella sostanza, infruttuoso: resta fermo che Casella non era uomo di teatro, e i tanti (troppi) ruoli di contorno della Donna serpente lasciano ben poche tracce.

 

 

La donna serpente
Opera fiaba in un prologo, tre atti e sette quadri


cast cast & credits



 
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