Ci sono dei grandi cui, per essere grandissimi, è mancato il senso delle proporzioni e della Storia. La querelle che oppose Carlo Gozzi a Goldoni – uno scontro di metodi, prima che di arte, paragonabile a quello che parallelamente, nella musica, opponeva gluckisti e piccinnisti – è oggi un reperto museale: non perché il tempo si è pronunciato, inequivocabilmente, a favore del teatro goldoniano, ma per la genericità della polemica innescata da Gozzi. Attaccare il realismo comico propugnando un ritorno al fantastico più macchinoso e irrazionale non è, sotto il profilo estetico, una posizione perdente a priori: lo diventa se si fa dogni erba un fascio e si mette sotto lo stesso ombrello – come appunto faceva Gozzi – le commedie di Goldoni e quelle di Pietro Chiari. E non sarà un caso se Alfredo Casella, dopo aver affettato per anni diffidenza verso il mondo del melodramma, si rivolgerà proprio a un testo di Gozzi per il suo primo esperimento operistico. Al pari del commediografo veneziano, pure il compositore torinese era vittima delle proprie idiosincrasie fino al qualunquismo: si potrà anche propugnare, come lui faceva, un ritorno al teatro musicale delle origini; ma stroncare indifferentemente lopera ottocentesca italiana, il dramma musicale wagneriano e londata verista sembra il sintomo di una certa impotenza creativa, oltre che di unumanissima invidia.
Frutto di un neoclassicismo tutto di testa, dove la musica è un valore assoluto e lazione non ha dignità autonoma ma è al massimo un commento della musica stessa, l«opera fiaba» La donna serpente (1932) alterna un generico declamato lirico a un recitar cantando paramonteverdiano (con interventi quasi madrigalistici del coro), innestandoli su un antipsicologismo di marca rossiniana (ma senza lanarchia di Rossini): tutto sommato una puntuale traduzione in musica dellestetica di Gozzi, che restituisce limmaginosità programmaticamente meccanica del suo teatro. I grandi primi piani orchestrali – sinfonia, interludi, marce – restano però i momenti più appaganti, a conferma della vocazione di Casella verso la musica strumentale, imprimendo al lavoro il respiro duna grande suite sinfonico-vocale e un andamento quasi pantomimico. Una drammaturgia musicale, insomma, che è una sfida problematica per qualunque regista.
Arturo Cirillo vince la scommessa e trova nello spazio angusto del palcoscenico del cortile di Palazzo Ducale a Martina Franca non un limite, ma unulteriore sollecitazione visiva. Grazie anche alle scene stilizzate di Dario Gessati e ai costumi semplici e coloratissimi di Gianluca Falaschi realizza un ottimo esempio di teatro povero e fantastico, fortemente materico nel lavoro sul corpo dei mimi-danzatori che danno forma a sogni e paure insite nella favola: bastano delle mani nere appese nel vuoto per evocare animali inquietanti, bastano dei piedi che emergono allinsù come dal nulla per trasmettere il senso duna presenza irreale. Il teatro di macchine e la grandeur gozziana cedono il passo a unantica sapienza artigianale, mentre il lavoro sulla recitazione dei cantanti mira a modulare lo spazio piuttosto che a delineare maschere e caratteri. Gli innumerevoli personaggi del libretto, infatti, sono più o meno tutti centrifughi rispetto alla vicenda centrale, ma senza che questo si traduca in autentiche storie parallele, né in figure che simprimono nella memoria dello spettatore: e Cirillo – da regista consapevole – rinuncia a una delineazione icastica dei singoli ruoli, in favore di una “polifonia visiva” tanto elementare quanto catturante.
Foto Laera
Fabio Luisi – che aveva mosso i primi passi professionali proprio al festival martinese, e oggi vi ritorna da divo del podio – offre una lettura di estrema precisione, come si conviene alle geometrie musicali di Casella. LOrchestra Internazionale dItalia risponde con zelo e professionalità: il suono è a tratti un po scabro e angoloso, alla Šostakovic (senza però le sue acidità timbriche) più che alla Stravinskij (che per Casella fu una sorta di stella polare), ma quanto si perde in levigata rarefazione viene compensato dallaffilata nettezza dei profili ritmici. Quanto al coro, la partitura lo pone spesso in primo piano: e quello della Filarmonica di Cluj-Napoca (un felice nuovo acquisto per Martina Franca) è un ensemble di alto livello tecnico ed espressivo.
Cast nellinsieme assai apprezzabile: a cominciare dal lirismo intenso e misurato della protagonista Zuzana Marková, anche molto musicale, come dimostra la saldezza dellintonazione nel canto a cappella fuori scena – la pagina vocalmente più suggestiva – che apre lultimo atto. Meno in ordine lemissione di Angelo Villari, soprattutto quando tenta (senza troppo costrutto: siamo pur sempre nel mondo delle favole…) di trasformare il personaggio del re Altidòr da tenore lirico-spinto a tenore eroico. Il quartetto delle maschere (debitore del tris Ping-Pang-Pong di Turandot e del poker Arlecchino-Scaramuccio-Truffaldino-Brighella di Ariadne auf Naxos, ma senza licasticità degli uni e la stilizzazione degli altri) è ben servito dal Tartagìl fanciullesco e birichino di Timothy Oliver e dal Pantùl spossato e paterno di Pavol Kuban, oltre che dalleleganza stilistica dellAlditrùf di Simon Edwards e dallinopinata robustezza (a prezzo però dun timbro che si è fatto assai metallico) dellAlbrigòr di Domenico Colaianni.
Energico nella declamazione, ma sottilmente accorato nellaccento, Carmine Monaco rende bene la dissociazione del Re delle fate, diviso tra tirannica inflessibilità e malinconica affezione. Candida Guida è unamazzone debitamente grintosa e Davide Giangregorio appare corretto, ma anche un po pallido, nei panni del ministro fedele, laddove Giorgio Celenza pennella con giusta untuosità il cammeo del ministro infedele. Citare gli interpreti uno a uno sarebbe però tanto doveroso quanto, nella sostanza, infruttuoso: resta fermo che Casella non era uomo di teatro, e i tanti (troppi) ruoli di contorno della Donna serpente lasciano ben poche tracce.
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