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Intervista a Gabriele Lavia

di Adela Gjata
  Gabriele Lavia
Data di pubblicazione su web 25/08/2014  

 

Gabriele Lavia è il nuovo consulente artistico della Fondazione Teatro della Pergola cui è  legato da antica frequentazione, a partire dalla formazione svolta a fianco di Orazio Costa. L’attore e regista milanese torna nello storico teatro fiorentino come capitano artistico e autore di tre allestimenti di cui due prime nazionali (Sei personaggi in cerca d’autore e Vita di Galileo). Ispirate a una visione del luogo teatrale come una “casa fra le case”, ospitale e sempre aperta a pubblico e artisti, le attività si articoleranno attorno alle stagioni del teatro di via della Pergola e del Teatro Goldoni in un percorso artistico che intende coniugare tradizione, esperimenti e un rinnovato interesse per la scena internazionale (a novembre ci saranno William Kentridge e Handspring Puppet Company). Di particolare rilevanza due ambiziose iniziative volte al sostegno dei giovani teatranti: Premio Pergola per la nuova drammaturgia affidato a una giuria presieduta da Franco Cordelli che porterà alla messa in scena del testo vincitore nella stagione 2015/2016; Altrestanze è invece il titolo di un’altra iniziativa che vuole riunire diciotto compagnie e artisti dell’area fiorentina in un progetto di spettacolo che sarà rappresentato al termine della prossima stagione (http://www.fondazioneteatrodellapergola.it).

 

Qual è stato il motivo ispiratore delle prossime stagioni della Fondazione Teatro della Pergola?

 

Il primo lumino acceso è stato l’atto costitutivo del Teatro della Pergola da parte degli Accademici Immobili dove la Pergola veniva vagheggiata come casa fra le case. Il motivo ispiratore di queste stagioni è stato appunto il concetto della casa – perché fra le case? – non soltanto dal punto di vista architettonico ma anche da uno più profondo, quello filosofico: la casa come l’unico luogo dove l’uomo si mette in libertà. Mettersi in libertà ci fa capire che la libertà esiste prima dell’uomo e l’uomo per essere tale non deve avere la libertà in sé, ma deve entrare nella libertà. Ovviamente la libertà è l’essenza della verità: soltanto se sei in libertà puoi ricercare la verità. A questo punto mi è sembrato quasi naturale immaginare la messa in scena del testo dei testi che s’interroga sulla libertà come essenza della ricerca della verità: Vita di Galileo di Bertolt Brecht che è per me come regista e attore forse l’appuntamento più importante della mia vita, anche perché lo spettacolo più bello che io abbia mai visto è certamente la messa in scena che Giorgio Strehler fece del testo di Brecht 51 anni fa. Era l’epoca quando pensavo di fare l’Accademia d’Arte Drammatica, decidendo quindi che la mia vita sarebbe stata nel teatro e neanche immaginavo che avrei fatto il regista a un certo punto. Vita di Galileo è quindi per me un appuntamento molto importante da tanti punti di vista e non ultimo quello affettivo verso Strehler che considero uno dei miei maestri e certamente un punto di riferimento imprescindibile per il teatro del mondo. Strehler ha cambiato non solo il teatro europeo, ma quello mondiale. Un altro testo non così lontano, paradossalmente, è Sei personaggi in cerca d’autore che aldilà dall’essere il testo più importante della drammaturgia italiana, è certamente il capolavoro del Novecento; probabilmente è con Edipo re il testo cardine della storia dell’umanità.

 

La prossima stagione della Pergola intende percorrere un doppio binario: da un lato i grandi classici (Pirandello, Shakespeare, Goldoni) e i grandi attori (Guarnieri, Pagni, Lavia, Orsini, Branciaroli) e dall’altro una particolare attenzione verso le nuove leve del teatro italiano. Come nasce questa dialettica e quale l’importanza di un reale investimento sui giovani teatranti?

 

Mi sembra un fatto del tutto logico investire sui giovani. Io sono convinto che ciò che è originario, ovvero quello che è più antico dell’antico, sia sempre contemporaneo. Il contemporaneo ha sempre un rapporto con l’originario, altrimenti non c’è lotta e contesa fra ciò che noi chiamiamo nuovo e il vecchio, perché quello che noi chiamiamo contemporaneo se non ha un’eco nell’archè, non può mettere in crisi certi aspetti dell’attuale e svelarne a volte la falsità o la precarietà di quello che a volte non è che una moda o un modo culturale che non ha niente a che vedere con la ricerca della verità. Perché noi diciamo: ah che bello spettacolo! ah che bel quadro! ah che bella musica! In genere l’arte viene qualificata come bella, si dice infatti le belli arti. Perché le arti sono belle? Che cos’è mai questo bello che è il fondamento dell’arte se non una sorta di mistero che trasluce attraverso l’opera. Questo trasparire del mistero è lo stesso sia in un’opera arcaica che in una contemporanea; la traslucenza del mistero è presente in entrambe. Non c’è differenza solo perché si dipinge in un modo o in un altro. Certo mettersi a dipingere oggi come Cimabue sarebbe un eccesso di zelo, però non ne abbiamo la prova contraria.

 

Un altro comune denominatore della programmazione è la presenza di Orazio Costa Giovangigli che alla Pergola abitò nell’ultimo periodo della vita e vi perfezionò il suo Metodo Mimico. Ritornano infatti al teatro fiorentino alcuni dei suoi più illustri allievi: lei per primo ma anche Fabrizio Gifuni, Pierfrancesco Favino e Alessio Boni, uno degli ultimi discepoli del maestro. Che insegnamenti serba dalla formazione costiana?

 

Io ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere profondamente Orazio Costa e di essere stato un suo amico. Costa era una persona straordinaria, probabilmente l’uomo che si è avvicinato maggiormente al problema centrale del teatro: il mistero dell’attore. Non l’ha portato fino in fondo e probabilmente ha commesso, secondo me, anche qualche errore nella sua ricerca verso questo mistero dell’attore. L’arte dell’attore è certamente l’arte più complessa e più antica. Nessun filosofo se n’è accorto peraltro. Nella storia della filosofia infatti nessuno parla del mistero dell’arte dell’attore dove la forma e la materia diventano una cosa sola: tutto accade nel corpo dell’attore. Per questo io dico che recitare è fare corpo, oppure poetare il corpo. Questo fare corpo è difficilissimo, purtroppo nessuno lo sa al di fuori degli attori stessi. Si può anche suonare bene il violino, ma recitare bene è impossibile.

 

Un ulteriore punto di contatto con Costa è l’allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, spettacolo di apertura della prossima stagione della Pergola che inaugurò a sua volta il teatro nel 1948 dopo la cesura della seconda guerra mondiale. Si tratta di una scelta simbolica? 

 

Tutto accade casualmente, anche se la filosofia ci insegna che esiste una necessità del caso, per cui causalmente accade – questo però ci conforta – che I sei personaggi in cerca d’autore è stato lo spettacolo per la regia di Costa che ha inaugurato la Pergola dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Abbiamo ritrovato il programma di quella messa in scena che era con Tino Buazzelli, Bice Valori, Paolo Panelli, Rossella Falk e Giancarlo Sbragia. La scelta dei Sei personaggi mi conforta nel senso che non c’è un’ideologia simbolista in tutto ciò, i punti di contatto con la storia del teatro si sono verificati dopo. Questo significa che tutto ciò era giusto nel senso etimologico del termine: c’è una congiunzione, un’armonia segreta e quindi il fatto che noi facciamo I sei personaggi diventa storico perché accade senza predeterminazione e si congiunge a quello che è già stato, proprio per la Pergola. Lo possiamo chiamare il destino, ma nel senso greco della parola: io mi destino a; anche se è l’uomo che determina il proprio destino non ci si può opporre a questo, sempre però nel momento in cui uno si destina

 

Come si avvicinano alla verità I sei personaggi nella sua messa in scena?

 

I sei personaggi è un abisso, è l’opera di un genio assoluto. Il problema di fondo è il rapporto tra la verità e la sua messa in opera, ovvero la finzione della verità. Che cos’è la verità? Può esistere tra gli uomini la verità? I sei personaggi, essendo un’assoluta creazione, sono veri, sono portatori della verità, sia pure tragica. La storia è un pretesto per dibattere un problema filosofico: la società degli uomini che vuole incarnare la verità, è costretta a metterla in scena. La verità è quindi precaria, non esiste tra gli uomini, ma esiste la ricerca maldestra della verità; così come gli attori quando cercano di mettere in atto la verità che è incarnata dai sei personaggi. Ebbene, questa finzione della verità diventa maldestra e goffa, come gli uomini stessi il cui percorso di vita è tortuoso e buio. Io metto in scena l’edizione del 1921; quella del 1925 si differenzia dall’originaria solo per una scena che è spostata all’inizio del II atto. Mi sono chiesto perché Pirandello abbia spostato quell’episodio, probabilmente per fare un piacere a Marta Abba, ma questo è un pettegolezzo. Io prediligo infatti la prima edizione; magari poi facendolo mi accorgo che l’edizione del 1925 è migliore. Metto in scena però quella edizione, non faccio una cosa attuale. Faccio una cosa contemporanea, rigorosamente qualcosa che accade in quell’epoca, quindi è tutta una fiction. So che diremo anche le didascalie, per dire guardate che non c’è nulla di vero in tutto ciò: stiamo facendo uno spettacolo, si tratta di una finzione. 

 

Ci saranno dei barlumi brechtiani quindi?

 

Non lo so, forse si. Non arrivo a simili finezze.

 

 

 



 
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