Alla Biennale Danza di Venezia diretta da Virgilio Sieni quello che non manca è la progettualità. Una progettualità legata ad un modo di intendere lespressività corporea e cinetica e di declinarla in un articolato palinsesto architettonico, pittorico e urbano per testare “lo stato dellarte” della danza contemporanea odierna.
Mondo Nuovo gesto, luogo, comunità, titolo scelto ad hoc dallo stesso Sieni per questa nona edizione, non vuole essere infatti “unennesima rassegna di danza” ma “un pensiero capace di esplorare nuove modalità percettive della città e dei corpi” che interagiscono fra di loro vivendo linsita teatralità di una realtà abitativa percepita da secoli come luogo scenico ideale. Un luogo deputato di cui Virgilio ha ben chiare le potenzialità sia al chiuso nei teatri e nelle sale, sia allaperto nei campi e campielli e che gli consente di “ridiscutere lo spazio della performance nella geografia urbana” e strutturalo in sette unità chiamate Aperto, Aura, Vita Nova, Invenzioni, Agorà, Prima Danza, Boschetto. Ognuna con una sua specifica potenzialità e in grado di accogliere in Aperto la consegna del Leone doro alla carriera a Steve Paxton, guru della conctat improvisation, e del Leone dargento a Michele Di Stefano, accreditato nome della nuova coreografia italiana.
E proprio lapplaudita prima assoluta di Eyes Off, Occhi senza sguardo, di Saburo Teshigawara nella Sala delle Colonne a Ca Giustinian, nato come omaggio a La Nuda del Giorgione, mostra appieno il significato coreografico e iconografico della sezione Aura, dedicata allincontro tra danza e pittura veneziana. Un ‘abbraccio che ricorda quanto sostiene il poeta lirico greco Simonide secondo il quale “la pittura è poesia silenziosa e la poesia è pittura che parla” mentre “la danza è una poesia muta e la poesia è una danza parlata”. Per noi, dopo aver visto Eyes Off, la danza diventa pittura in movimento in un luogo scenico ideale rappresentato dalla Sala delle Colonne di Ca Giustinian.
Uno spazio tripartito che richiama il motivo della “scena a portico” visibile ne LArrivo degli Ambasciatori, un dipinto di Vittore Carpaccio del 1494 circa e poco anteriore della Nuda del Giorgione, un affresco databile intorno al 1508, staccato dalla facciata del Fondaco dei Tedeschi e oggi esposto alla galleria Franchetti Ca dOro.
Una serie di sottili ma affascinanti collegamenti che fanno apprezzare ancora di più lintento di Virgilio Sieni nel rintracciare in Aura i legami tra danza e pittura e al tempo stesso confermano luniversalità di tali linguaggi espressivi se un maestro della coreografia contemporanea come il giapponese Saburo Teshigawara sapientemente coniuga spirito orientale e occidentale in uno spettacolo brevissimo ma di notevole impatto visivo ed emotivo.
Foto di scena di Akiko.
Accompagnato dallimpeccabile Rihoko Sato, una figura quasi immateriale per la silenziosità e la leggerezza con cui appare e si muove, Saburo balla sulle note di una partitura musicale curata da lui stesso, autore anche delle luci e dei morbidi costumi neri, tenendo presente il dipinto del Giorgione di cui rimane unimmagine sgranata e priva di contorni.
Proprio quellevanescenza diventa per Teshigawara fonte di ispirazione per una danza ‘di pittura che in un crescendo continuo si sviluppa prima con lui solo e poi a canone con Rihoko per farsi morbida, flessuosa, inconsistente come il quadro e animare la “scena a portico” della Sala delle Colonne in unAura senza tempo.
Più complesso e non privo di perplessità si fa invece il discorso per Sacré Sacre du Printemps del coreografo regista teatrale Laurent Chétouane in prima italiana al Teatro delle Tese. Un lavoro del 2012 che riprende la celeberrima Sacre du Printemps di Igor Sytravinsky coreografata da Nijinsky nel 1913.
Fin qui nulla di nuovo dal momento che è normale tra i coreografi cimentarsi in rivisitazioni di capisaldi della storia ballettistica occidentale - basti pensare a Maurice Bèjart, John Neumeier, Pina Baush - a dimostrazione della generosa disponibilità dei capolavori a lasciarsi ricreare secondo il gusto del ‘ricreatore, nello specifico il francese Laurent Chétouane.
Chétouane nella sua versione, accolta da applausi e dissensi, sposta laccento dallindividuale “sacrificio della primavera” per il bene della comunità, ovvero quello dellEletta, sul sacrificio, altrettanto individuale, rappresentato però dalla nostra incapacità di accettare laltro nella sua alterità trasformando questo Sacré Sacre du Printemps in “un rito contemporaneo” dellesclusione.
Foto di scena di Benoīte Fanton.
Incomunicabilità e brutalità diventano così le uniche forme possibili di contatto sottolineate dalla musica di Stravinsky, dagli inserti sonori di Leo Schmidthals, dal video design di Tomek Leziorski e il light design di Stefan Riccius.
I sette interpreti, Matthieu Burner, Joris Carmelin, Kathryn Enright, Joséphine Evrard, Charle Fouchier, Mikael Marklund, Senem Gökēe Oğultekin, vestiti da Sophie Reble con maglietta e pantaloni dai toni spenti, per ben novanta minuti si rincorrono a braccia aperte, accentuano lafasia respirando affannosamente, spalancano gli occhi come di fronte allorrore del rifiuto reciproco, lottano per affermare la loro individualità puntualmente rifiutata, cercano di coinvolgere lo spettatore in questo “rito” sacrificale che, prolungandosi un po troppo, li e ci costringe ad una prova di resistenza.
Seppure interessante il punto di partenza di Laurent Chétouane, aiutato anche dalla drammaturgia di Leonie Otto, Sacré non convince e se si considera che la sezione Aperto ospita coreografi “accomunati da una forte logica coreografica” in questa pièce “la logica coreografica” sfugge come sfugge la danza nel senso proprio del termine per diventare una pseudo danza.
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