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Bigger than life

di Vincenzo Borghetti
  Les Troyens
Data di pubblicazione su web 06/05/2014  

 

Berlioz, in cuor suo, si sarebbe forse rammaricato. I suoi Troyens negli ultimi anni tornano con regolarità sui palcoscenici, e lo fanno riscuotendo ogni volta da buoni a grandi successi, come nel caso della coproduzione del Teatro alla Scala, Royal Opera House di Londra, Staatsoper di Vienna e Opera di San Francisco, arrivata a Milano questo scorso aprile, e accolta con entusiasmo dal pubblico (in teatro sentivo le signore della fila davanti dirsi che è stata finora la produzione migliore della stagione in corso). Senza dubbio possiamo immaginare che per l’autore vedere finalmente sulle scene di grandi teatri il suo Grand Opéra in cinque atti sarebbe stato motivo di soddisfazione e orgoglio, tanto più per un compositore che, come si sa, nel corso della sua vita riuscì ad assistere alla rappresentazione solo di una parte della sua opera (gli atti III-V, Les Troyens à Carthage, dati come opera autonoma al Théâtre Lyrique di Parigi nel 1863). Eppure, sospetto, questi successi, in fondo, sarebbero stati per Berlioz anche motivo di cruccio. Sì, perché i Troyens nascono come opera impossibile: un’utopia teatrale, più che un’opera dell’avvenire, un’opera coscientemente inattuale, e, quindi, proverbialmente giudicata irrealizzabile, e di fatto irrealizzata nella sua completezza se non in tempi molto recenti. In questo Les Troyens è l’epitome al superlativo dell’estetica teatrale della sua epoca, tanto compendia tutte le ricerche di forme sempre sorprendentemente “contro”, anche nei confronti delle soluzioni ai suoi tempi più moderne, come quelle di Wagner e di Verdi. Berlioz, infatti, vi recupera i numeri chiusi della tragédie lyrique, ma lo fa in forme madornali, e in un momento in cui altri (Wagner e Verdi) impongono il loro superamento; vi ricorre alle durate e alla grandezza spettacolosa del grand opéra, ma per una vicenda con un intreccio minimo rispetto a quelli delle opere più famose di Meyerbeer (tant’è che Les Troyens ha la fama di essere un’opera molto lunga, quando la sua lunghezza non supera certo quella di altri titoli saldamente in repertorio, come i Meistersinger o Götterdämmerung, o quella di Les Huguenots o Le prophète). Ebbene, che a questa forma di teatro in musica potesse un giorno arridere anche il favore del pubblico è qualcosa che avrebbe dato all’autore, immagino, qualche inquietudine. La rappresentazione negata in vita e un rapporto difficile col pubblico sono elementi troppo fondamentali nella autocostruzione di Berlioz come compositore “grande”, sempre apocalittico e mai integrato da vivo e, soprattutto, da morto; un po’ di incomprensione, anche a distanza di più di un secolo, non avrebbe di certo guastato, anzi.

 

Un momento dello spettacolo.
Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano

 

A garantire il successo di questi Troyens hanno concorso forze teatrali e musicali di prim’ordine, quali solo un’importante coproduzione internazionale poteva garantire, le sole che, del resto, potessero confrontarsi con le innumerevoli difficoltà poste dalla scrittura di Berlioz (se utopia ha da essere…).


La regia di David McVicar ha giocato la carta della ricchezza illustrativa più che quella dell’analisi interpretativa. Ha costruito i suoi Troyens sull’idea del contrasto che contrappone due civiltà, e ha messo in scena Troia, nei primi due atti, come un tetro occidente post-bellico (i personaggi vestono abiti ottocenteschi), tra fatiscenti rottami industriali, e Cartagine, nei rimanenti tre, come un oriente primitivo, ma vitale e gioioso (contrasto rimarcato dall’opposizione di una scenografia convessa, fredda e respingente nel primo caso, concava calda e accogliente nel secondo), il cui contatto con la civiltà più avanzata si dimostrerà fatale (alla fine Cartagine è a pezzi, come la sua sfortunata regina). McVicar ha messo in scena l’opera di Berlioz, per l’appunto, ma, contrariamente a molte delle sue regie precedenti, ha prestato meno cura alla recitazione dei cantanti e ai movimenti di massa, che risultano generici, soprattutto all’interno di un impianto scenico-narrativo così felicemente concepito. A ogni modo, funzionano meglio gli atti troiani (l’arrivo del cavallo, la pantomima del primo atto, l’apparizione dell’ombra di Ettore), meno, invece, le “colorate” scene cartaginesi, che, specialmente all’inizio del terzo atto, mancano dell’eleganza e della forza emotiva delle precedenti.

 

Un momento dello spettacolo.
Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano

 

Per quanto riguarda la parte vocale, Anna Caterina Antonacci è stata capace di conferire alle frasi di Cassandre una varietà di colori e accenti tale che ognuna di esse acquista una corporeità e una gestualità intrinseche. L’intensità della sua recitazione non fa che dare evidenza scenica a quanto l’interprete mette già nel canto, col risultato che la sua Cassandre si distingue come una delle interpretazioni più emozionanti del moderno panorama lirico: non a caso negli ultimi decenni Antonacci si è giustamente imposta come interprete di riferimento in questo ruolo nei maggiori teatri europei. Daniela Barcellona ha dato forma vocale smagliante alla sua Didon, a cui ritorna dopo una fortunata produzione al Palau des Artes di Valencia di qualche anno fa. Barcellona sfoggia un timbro omogeneo, un colore vocale sontuoso, perfetti per disegnare il personaggio della regina cartaginese, che sostiene con sorprendenti doti attoriali (sorprendenti almeno per me, che, da protagonista, l’avevo finora vista sempre e solo in produzioni scenicamente compassate). Gregory Kunde (anch’egli veterano ormai del ruolo) è stato un Énée di grande autorità, con una voce che ha oggi sviluppato una ricchezza di armonici, una pastosità di timbro e omogeneità che gli permettono di affrontare il ruolo dell’eroe troiano senza timori di fronte alle sue proverbiali sfide (una tessitura ingrata, anzi, francamente impossibile). Ottima la prova di Paolo Fanale (Hylas), Alexandre Duhamel (Panthée), Paola Gardina (Ascagne). Molto bene gli altri comprimari, anche se con qualche disuguaglianza (il Chorèbe vocalmente problematico di Fabio Capitanucci, messo ancor più in difficoltà dal contrasto diretto con la Cassandre superlativa di Antonacci; l’Anna generica di Maria Radner, e lo Iopas non intonatissimo di Shlava Mukeria). Ottimo anche il coro (preparato come sempre in modo impeccabile da Bruno Casoni).


La direzione e concertazione di Antonio Pappano, alla Scala per la prima volta in buca, sono state perfette per scelta dei tempi, ricche di sfumature nei fraseggi, nelle dinamiche, e soprattutto nel gioco degli impasti timbrici per cui questa partitura è famosa: sembrava che la musica scaturisse direttamente dalla scena, che fosse una parte integrante dei movimenti, degli effetti di luce e di colore (merito, ovviamente, anche di un’Orchestra della Scala in una delle sue serate migliori).


Grande successo, come dicevo, per tutti, con ovazioni per Antonacci, Barcellona, Kunde e Pappano.

 

 

Les Troyens
Grand Opéra in cinque atti e nove quadri


cast cast & credits



 
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