Silvia Colasanti, classe
1975, è attualmente considerata tra i compositori di maggior
successo sulla scena musicale italiana ed europea. Formatasi al
Conservatorio Santa Cecilia di Roma con Luciano Pelosi e Gian Paolo
Chiti, e in seguito perfezionatasi con i maestri Fabio Vacchi,
Wolfgang Rihm, Pascal Dusapin e Azio Corghi, è di recente stata
insignita da Giorgio Napolitano del titolo di Cavaliere. È membro
del Comitato dOnore Internazionale Viva Toscanini e della Società
del Kalevala. Ha inoltre vinto il European Composer Award a seguito
della prima esecuzione del brano per orchestra Responsorium al
Konzerthaus di Berlino. La Colasanti è nuovamente presente a Firenze
per la ripresa della sua prima opera, la Metamorfosi,
commissionata dal Maggio Musicale Fiorentino in occasione del 75°
Festival, per la regia di Pier'Alli.
Silvia Colasanti,
torna a Firenze con La metamorfosi, commissione
del 2012 per il Maggio Musicale Fiorentino. Una ripresa dopo due anni
è un buon segno. Lei cosa ne pensa?
Il segno è ottimo visto
che la musica contemporanea vive di prime ed uniche esecuzioni, in
particolar modo poi dal punto di vista operistico, considerando i
costi di un'opera oggi, è un segnale davvero eccellente!
Precedentemente aveva
affrontato il teatro musicale con altri tre lavori scritti tra il
2006 e il 2008 e due opere per bambini, l'ultima del 2013, ma La
metamorfosi è stata la sua prima opera destinata ad un
pubblico adulto. Aver affrontato il genere operistico gradualmente è
stata una scelta personale o un caso?
È stato un caso, nel
senso che queste commissioni mi sono arrivate nell'ordine da lei
riportato. Ma, come per il resto del mio lavoro, arrivare ai
risultati gradualmente mi ha sempre aiutata a crescere e non
affrontare generi e impegni senza un percorso precedente che mi ci
conducesse progressivamente.
Da più di un secolo
si sente ripetere che l'opera italiana è un genere morto, ma, dati
alla mano ci dimostrano che è ben vivo e prolifico. Negli ultimi 15
anni infatti, ossia dall'inizio del nuovo millennio, almeno 50
diversi compositori italiani hanno scelto di scrivere opera. Cosa significa per lei
fare opera in Italia oggi?
L'opera, per quello che
mi riguarda, non è assolutamente un genere morto, come la musica non
è morta. Naturalmente molte cose sono state scritte. Viviamo in
un'epoca che ci ha consegnato un passato ricco e questa è una cosa
stimolante, ma è anche un grande peso che ci portiamo dietro. Ciò
non è assolutamente un freno alla creatività e alla scrittura di
lavori nuovi. Se poi mi chiede nello specifico, l'Italia, tranne casi
sporadici, non dedica una grandissima attenzione alla produzione
d'opera, in particolare di opere nuove. Abbiamo molto spesso teatri
che vivono più che altro di repertorio e questo è sicuramente un
brutto segno per la cultura italiana. Fortunatamente ci sono ancora
alcuni enti che hanno ancora voglia di affiancare al genere
tradizionale la produzione di nuove opere, che poi, se resteranno
nelle programmazioni, andranno a formare il repertorio del duemila
Qual'è il suo
rapporto con la tradizione operistica passata italiana e straniera?
Naturalmente amo da
sempre moltissimo l'opera. Il teatro musicale è l'aspetto che
m'interessa di più nel mio lavoro. Sia nell'opera, sia nel mio
linguaggio in genere, la tradizione coesiste poi con le avanguardie
più recenti. Tutto il teatro si va a combinare nella memoria per
andare a creare nuove opere. La tradizione non si cancella, ha molto
da insegnarci. Va conosciuta,
elaborata. Va anche dimenticata però. Nel mio lavoro l'eredità
della tradizione ritorna unita alle conquiste della più recente
avanguardia.
A quali compositori
contemporanei d'opera, in particolare italiani, si trova vicina come
pensiero musicale ed estetico? Può fare riferimento a qualche opera
in particolare?
Mi piace tenermi
aggiornata sulla musica di oggi e sicuramente sulla produzione di
quelli che sono stati i miei maestri Azio Corghi, Fabio Vacchi. Da
loro naturalmente ho imparato molto, ma non
tanto nei termini di vicinanza con la loro estetica e la loro
sintassi musicale, quanto in riferimento un approccio generale al
genere opera, che è innanzitutto un approccio vivo,
che non vede l'opera come la negazione di un racconto, come la
negazione di una teatralità della musica. A loro questo lo riconosco
per un rapporto maestro-allievo, ma lo stesso discorso vale anche per
tanti altri compositori, sia italiani, sia stranieri.
In quale sua
composizione si riconosce maggiormente?
Proprio ne' La
metamorfosi. Da tempo avevo il desiderio di cimentarmi nella
scrittura di un'opera e questa volta ho avuto tutti i mezzi per
poterlo fare ed esprimermi al meglio.
La metamorfosi
prende ispirazione da un grande classico della letteratura moderna
europea. Crede che l'opera d'oggi abbia bisogno necessariamente di
ispirarsi a modelli alti o possa anche, a dispetto del suo prestigio
formale, farsi ispirare da testi più recenti e per questo più
legati alla contemporaneità?
L'opera può nascere da
tutto. Personalmente mi sono trovata a lavorare con testi che oggi
possiamo definire classici, come Kafka. Però ciò non vuol dire che
non ci possano essere anche nel mio percorso delle aperture verso dei
testi pensati apposta per essere messi in scena oggi. Ad esempio in
questo momento sto lavorando ad un nuovo progetto di teatro musicale
con un testo appositamente commissionato
a Patrizia Cavalli con la regia di Mario Martone. Lavoro che andrà
in scena non prima di un paio d'anni.
Torniamo alla
Metamorfosi. Come ha deciso di organizzare il
suo lavoro compositivo per per quest'opera?
La genesi della
Metamorfosi si lega appunto a questo libretto che
Pierluigi Pieralli ha tratto dal romanzo di Kafka. Un
libretto su cui abbiamo lavorato molto, anche confrontandoci
continuamente. Abbiamo lasciato intatta la tripartizione formale
kafkiana e naturalmente il lavoro compositivo nell'opera è
fortemente legato al dramma, perché la musica nell'opera è il luogo
in cui si esprime il dramma, deve quindi essere al suo servizio. In
questo senso ho lavorato naturalmente legandomi appunto alle diverse
situazioni interiori che il testo proponeva. La sfida musicale più
importante era quella di mettere in scena il personaggio di Gregorio,
un personaggio ibrido tra il mondo umano e quello animale. Un
personaggio che ha una voce che gli altri fanno fatica a comprendere, ma
che invece il pubblico doveva capire. Non volevo dare una
rappresentazione musicale didascalica di questa sua mostruosità e di
conseguenza la scelta è caduta su di un personaggio polifonico, un
personaggio multiplo, cioè fatto da un attore e da un coro, il
risultato è una voce animata da voci-ombra che colorano quella di
Gregorio, in qualche modo prolungano il suo pensiero, le sue
emozioni.
A differenza di
altri generi musicali in cui lei si è molto cimentata in passato,
come il repertorio cameristico e quello sinfonico, l'opera presuppone
anche una forte sinergia con le altri componenti, soprattutto la
regia. Come coniuga l'idea compositiva con esigenze prettamente
registiche e tecniche in fase di allestimento, in questo caso con
Pier'Alli?
Pier'Alli è un
regista eccezionale. È stata per me una grandissima fortuna quella
di poter lavorare insieme a lui. Ho imparato molto dal nostro
confronto, abbiamo lavorato continuamente fianco a fianco,
scambiandoci le nostre idee registiche e musicali e, là dove queste
sono state fonte di riflessione per l'uno o per l'altro, abbiamo
sempre cercato di venirci incontro. La musica si può coniugare
benissimo con le esigenze registiche là dove c'è un grande regista.
Com'è nata la
vostra collaborazione?
È stata una
scelta del Maggio Musicale Fiorentino quella
di coinvolgerci entrambi nello stesso progetto.
Ci parli dei suoi
impegni futuri.
Oltre alla nuova
opera c'è all'orizzonte un lavoro per Yuri Bashmet e i Solisti di
Mosca.
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