Macondo è, per la memoria culturale comune, il paese immaginario di Centanni di solitudine di Gabriel García Márquez e quindi, a seguire, il nome illusorio e velleitario di molti centri sociali o alternativi nati sullonda (o nella confusione) del realismo magico e utopico della grande stagione letteraria ed ideologica che ne seguì. Quel nome dalle mille risonanze è invece nel film austriaco della tedesca di origine iraniana Sudabeh Mordezai una no mens land situata ai bordi remoti del distretto viennese di Simmering, tra aeroporto, autostrade e campagne incolte. Macondo è un quartiere multietnico, o meglio un agglomerato informe che ospita circa 300 rifugiati di 22 etnie.
Facendo lo zoom su un piccolo nucleo familiare la regista entra nellintimità di un quartetto malinconico nel quale gli unici sorrisi sono delle incoscienti bambine sorelle del protagonista Ramadan, troppo presto obbligato a crescere per dare un appoggio alla madre, fuggita con i tre figli dalla Cecenia dopo la presunta morte del marito. Bello e partecipe dallinizio alla fine il film alla lunga, senza perdere lo sguardo sollecito della regista, diventa un po prevedibile, dopo la ben congegnata prima parte che vede il protagonista, ben integrato nella scuola e quindi nella lingua del paese ospitante, fare da interprete ad una madre sensibile e smarrita, totalmente incapace di difendersi da una realtà a lei estranea.
I vagabondaggi del bambino nel quartiere, laccudimento delle sorelle, il sostegno alla madre scorrono con immagini neutre e al tempo stesso parlanti, sul volto espressivo di Ramasan Minkailov il cui forzato e precoce equilibrio si rompe con larrivo di un amico del padre che prima lo costringe a riavvicinarsi al ricordo del genitore che lui aveva in parte rimosso e poi in qualche misura se ne fa vicario. La bella amicizia con il bambino si rompe quando questi intercetta una simpatia tra luomo e la mamma e, allontanandosi bruscamente dalla fragile protezione domestica, vive con maggior partecipazione la pericolosa complicità delle piccole gang di quartiere.
La regista è troppo attenta a non cadere nei rischi del melodramma e mantiene il film in equilibrio fino alla fine, con unambiguità non priva di speranza. La leggera delusione del film, peraltro stilisticamente assai omogeneo, nasce pian piano in quellandamento così assestato da rendere il tutto un po troppo studiato e monocorde, quasi che lo sforzo delloggettività abbia in qualche misura opacizzato la forza della creazione.
|
|