Lopera prima di Spiro Scimone e il primo vero successo della compagnia Scimone-Sframeli, Nunzio, si appresta a compiere i suoi primi ventanni. Al debutto Carlo Cecchi, regista dello spettacolo, lo presentava sottolineando la centralità del “conflitto”, insito nel testo e nella messinscena degli attori, tra «un contenuto veristico ottocentesco» e «la coscienza, se pur baluginante, della sua ormai sclerotizzata alienazione».
Al Cantiere Florida è ancora il conflitto a stupire: in scena Bar, secondo testo di Scimone, e Nunzio; due pièces che si rimpallano le tematiche scottanti della nostra contemporaneità con lurgenza propria di una drammaturgia contemporanea.
La scena di Titina Maselli riproduce il retro di un bar che è reso da sei pannelli rettangolari di un rosso fragola inumidito, accostati in modo da formare una parete che limita lo spazio ad una porzione ristretta di palco. Questa striscia di colore inchioda i due personaggi in scena, Nino (Francesco Sframeli) e Petru (Spiro Scimone), alla bidimensionalità di un bassorilievo dei giorni nostri. Pochi oggetti completano la scena: qualche bottiglia, dei bicchieri, una radio per “esotici” suoni e una finestrella, unico contatto con un fuori beckettiano e minaccioso.
Pino (Spiro Scimone), Nunzio (Francesco Sframeli) in Nunzio. Foto di Andrea Coclite
Questo atto unico racconta agli spettatori una storia che gli attori hanno necessità di condividere. È la fotografia distorta di una periferia corrotta e popolata dalla malavita, in cui vige la legge del più forte e dove il buon senso e la saggezza sembrano aver lasciato il posto alla rassegnazione e alla paura. Nino è un barista mai cresciuto davvero e ossessionato dalle cure di una madre ingombrante. Lavora “in nero” nello squallido bar del titolo, ma sogna da sempre di essere assunto in un locale dove poter servire, finalmente, gli aperitivi. Petru fa parte della più sprovveduta e bassa manovalanza e si ritrova, di giorno in giorno, sempre più stretto nella morsa dello strozzino-magnaccio Gianni (personaggio di cui si parla e basta).
Il tempo è nel teatro di Scimone un nemico spietato, scorre e costa, e i due uomini in scena non lo sanno gestire; Petru quasi sempre di tre-quarti, la testa bassa, raccolto nelle proprie preoccupazioni, porta con sé un orologio che non funziona, Nino, sempre frontale rispetto alla platea, cui dona movimenti di incantevole antinaturalismo, segue, come da bambino, i ritmi imposti da sua madre; lo stesso Gianni verrà ucciso “troppo presto”, e lambiguità del finale fa cadere il sospetto su uno dei due poveracci, entrambi ricchi di plausibili moventi.
Le due figurine schiacciate su quel fondale si offrono a chi le osserva, coinvolgono il pubblico senza illuderlo. Emblematici in questo senso gli “inserti comici” nei quali la coppia si muove in modo sincronizzato denunciando il risvolto “alienato” di un “contenuto veristico ottocentesco” proposto attraverso il gioco del teatro. Gioco che è, come già in Nunzio, scenico quanto linguistico. In Bar, come in Nunzio, la lingua che regge queste conversazioni tra “ultimi” è un dialetto messinese normalizzato, tanto espressivo da farsi comprensibile, arricchito comè da gesti, sonorità e… silenzio.
Nunzio (Francesco Sframeli). Foto di Andrea Coclite
Luso particolare del silenzio e della pausa, del non detto, è nota stilistica che caratterizza la scrittura di Scimone, e la recitazione del duo, fin dallopera prima. Nunzio potrebbe essere “riassunto” nellimmagine di una mano che trattiene. Le ripetizioni e i silenzi, di cui si carica la recitazione dei due personaggi, Pino (Spiro Scimone), sicario in licenza e Nunzio (Francesco Sframeli), operaio affetto da una malattia polmonare contratta sul posto di lavoro, sono correlati dellazione, sono parola che diventa azione e ne stabilisce il ritmo. Nunzio è la storia del tentativo di infrangere lestrema solitudine in cui luomo si trova; il tentativo di Nunzio che, tossendo in modo straziante - «in ventanni mai la stessa tosse» come ricorda Sframeli, sottolineando il “comè” della verità del teatro - trattiene lamico dalla sua predisposizione alla fuga. Da ricordare le insensate e disperate corse del sicario-Pino verso luscio di casa, annunciate dai rumori fuori scena di sospette corrispondenze, e consumate nel corridoio perennemente illuminato dellultima quinta a sinistra.
Il tic tac di un orologio invade la scena di un interno domestico: la cucina in cui Nunzio, fuggito dallospedale, consuma la sua malattia alla luce del “Sacro cuore di Gesù” e sotto leffetto miracoloso di alcune pillole consigliategli dal suo misericordioso principale. Pino, di passaggio tra un viaggio e laltro, rompe la monotonia di questo interno, la sua “anomalia” permette alla conversazione di indugiare in sogni e propositi: il viaggio di Nunzio in Brasile, la visita alla prostituta Lola, la speranza nella guarigione per grazia divina, il più semplice proposito di vestirsi e uscire. Nunzio rimarrà legato alla sedia (ma quanti sono i modi in cui Sframeli riesce a star seduto!), Pino, dei desideri di Nunzio, esaudirà solo quello di un piatto di pasta («comu a sai fari tu» continua a ripetere il personaggio); ed è indicativo il fatto che il ricordo di questo pasto scomparirà sulla eco di brindisi (che prevedono ancora una volta momenti di sincronismo tra i due attori) tesi ad esorcizzare «a morti buttana», più che mai incombente nei colpi di tosse che accompagnano il buio finale.
Il buio, qui come in Bar, ci sottrae la visione delle quattro vite di tali personaggi. Non sono però queste a finire ma siamo noi a non vederle più. La luce è in questi due spettacoli di fondamentale importanza, fintanto da denunciare il gioco scenico. In entrambe le pièces gli attori sono impegnati nellatto di accendere e spegnere un interruttore, sempre sul lato interno di una delle quinte, riproponendo così una sequenza riconoscibile, abituale, che da azione naturalistica si fa segnale, quindi “gestus”, e che si potrebbe arrivare a leggere a mo di attualizzata posa ottocentesca. Linterruttore, e la luce che esso controlla, diventa allora strumento in mano a questi due splendidi attori per determinare ciò che vogliono mostrarci, di volta in volta, dei loro personaggi, nel «gioco bello e terribile» che è il loro teatro.
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