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Come fossi una bambola

di Vincenzo Borghetti
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Data di pubblicazione su web 17/12/2013  

 

È una scatola la scena pensata da Dmitri Tcherniakov per questa Traviata, una stanza chiusa sui quattro lati e protesa verso gli spettatori. È la casa in cui prendono corpo le storie di una bambola, Violetta, il giocattolo in carne ed ossa al servizio degli uomini potenti: una casa fatta di spazi diversi, ma in fondo tutti uguali, freddi ed eleganti come quelli delle case di bambole delle vetrine natalizie. Con la bambola-Violetta possiamo giocare tutti come con una Barbie, basta comprarla: è bionda, formosa, con un fiore rosso in testa, sorridente, ci sta benissimo in quelle stanze dove è sempre festa. La bambola-Violetta però ha un cuore, e si oppone al suo destino, ci prova, almeno, a non essere ‘giocata’ come Flora e le altre come lei che affollano la Parigi del beau monde. La casa in cui Violetta fugge col suo amore, Alfredo, è in campagna, come vuole il libretto, ma nella lettura di Tcherniakov è il contrario di quelle viste in città. Il regista ci mostra non un altro salotto, magari rustico, ma una cucina grande, in cui non si servono solo drinks e, se va bene, finger food (come nella casa del primo atto, o da Flora), ma cibo, tanto, fresco, fatto in casa (Giuseppe scarica pacchi di farine; Alfredo fa la pizza e taglia le verdure). Alle sue pareti dai colori caldi pendono poi pentole, padelle grandi e visibilmente usate. È la realizzazione di un sogno: la bambola prova a diventare donna, e a nutrire con cibo vero e, quindi, con affetti veri la sua nuova vita insieme all’uomo amato.

 

Non ci sono più le parrucche bionde e i fiori di plastica del primo atto, non ce n’è più bisogno. Violetta indossa pantofole comuni e sgraziate, gira in tenuta da casa, raccoglie i capelli sbadatamente con un mollettone. Questo nuovo scenario è quello che serve a Tcherniakov per raccontare anche dell’altra emancipazione tentata: quella di Alfredo, che, con Violetta e grazie a lei, prova anche lui a diventare uomo. Un uomo diverso da suo padre: lui per la sua donna vuole fare cose ‘moderne’, perché non curante delle convenzioni, Violetta la ama davvero, e su questo amore sincero vorrebbe fondare la sua vita ‘borghese’. Ma un uomo ‘vero’, come suo padre, o il marchese, Gastone, o il barone, queste cose semplicemente non le fa: loro hanno imparato bene che nel codice della rispettabilità l’amore può solo essere un dovere sociale, non un sentimento. Quella di Alfredo è allora una rivoluzione scandalosa che Germont-padre non gli permette, e per cui gli amici Flora lo sfottono crudelmente durante la festa (loro, i ‘trasgressivi’). Dopo aver convinto Violetta, il padre canta al figlio la sua spietata ninna nanna per farlo ritornare il bambino ubbidiente che era. Tcherniakov ci mostra Alfredo mentre tenta di resistergli, provando ancora a fare la pizza e ad affettare sedani e zucchine, i gesti del suo idillio domestico ‘moderno’ con Violetta (un uomo che cucina!). Ma non ce la fa, il padre è più forte di lui, e le azioni dell’idillio gli si spezzano letteralmente in mano, ritorcendoglisi contro (si taglia). Dalla credenza lo guarda una bambola bionda vestita come la Violetta del primo atto. Alfredo l’afferra, e la stringe al cuore: è la Violetta-giocattolo che voleva diventare donna e che proprio ad Alfredo tocca rimettere al suo posto di oggetto. Trattare Violetta da bambola è l’unico ‘uso’ che per tramite di Germont-padre il dovere sociale di nuovo trionfante gli consente di quella donna, e forse di tutte le donne.

 

Violetta ritorna una bambola alla festa di Flora, e ritorna a muoversi nelle stanze fredde ed eleganti delle case parigine che aveva sognato di scordare. Sarà di nuovo se stessa alla fine, una bambola malata, ‘rotta’ (la bambola della credenza giace ora abbandonata in proscenio) in una casa non più alla moda, piena ormai solo di tristi quanto inutili medicine. Alfredo torna da lei, ma non riesce più nemmeno a parlarle, a toccarla. L’amore per Violetta adesso è troppo doloroso, per lui che diversamente da lei ha avuto paura di dire no, di diventare un uomo grande e ‘vero’.

Ecco, questi sono solo alcuni particolari della Traviata di Tcherniakov, uno spettacolo di così grande intelligenza, intensità, complessità, sottigliezza interpretative e di così attenta cura teatrale che i miei pensieri letteralmente ‘non vanno in rima’, e mi è impossibile rendergli giustizia nello spazio di una recensione. Come il Lohengrin della passata inaugurazione, si tratta di una delle migliori produzioni della Scala degli ultimi anni: non poteva esserci migliore conclusione per il bicentenario Verdi/Wagner.

 

Ah, dimenticavo, alla prima ci sono stati cori di ‘buuu’ dal loggione. Qualcuno si aspettava forse una reazione diversa?

La regia di Tcherniakov ha trovato la sua perfetta interprete in Diana Damrau (Violetta Valéry). Per lei mi trovo a ripetere quello che scrissi un anno fa per il Lohengrin di Jonas Kaufmann: nella mia esperienza di spettatore d’opera solo molto di rado mi è capitato di assistere a un’interpretazione così profonda e coinvolgente, sia dal punto di vista musicale che teatrale, come la Violetta di Diana Damrau. La sua Traviata è stata un tale capolavoro di recitazione vocale e fisica, che persino il pubblico scaligero (diffidente verso chiunque osi cantare questo ruolo verdiano nel ‘suo’ teatro) ne è rimasto soggiogato, come hanno rivelato gli applausi nel finale del primo atto, all’Addio del passato, alle ovazioni entusiaste durante le chiamate finali, e le code dei fan in attesa per lei fuori dai camerini. Buono il successo del tenore Piotr Beczała (Alfredo Germont), dopo le contestazioni della prima. La sua è stata una prova convincente: forse la sua linea di canto non è particolarmente accattivante, ma la voce è bella, ‘viaggia’ benissimo in teatro, la dizione è chiara e la sua recitazione partecipe e spigliata. Di quanti tenori si potrebbe dire lo stesso oggi? Molto bene Željko Lučić (Giorgio Germont), che ha regalato una figura paterna di grande eleganza scenica e musicale; nonostante qualche nota non proprio a fuoco nel registro acuto, l’interprete ha mostrato perfetto controllo della melodia, dei colori e delle dinamiche, caratteristiche non certo comuni nei baritoni cosiddetti ‘verdiani’. La direzione di Daniele Gatti ha suscitato molte perplessità: per lui le contestazioni oltre che alla prima non sono mancate nemmeno alla replica del 15 dicembre. È vero che ci sono di quando in quando tempi piuttosto compassati (penso, per esempio, all’inizio del secondo atto o al concertato alla fine dello stesso), tuttavia Gatti non è certo stato avaro di momenti dalla forte carica emotiva (uno fra tutti l’Addio del passato), trovando risposta in un’orchestra e in un coro in gran forma (l’ultimo, come sempre, preparato dall’ottimo Bruno Casoni).

Per finire, una menzione speciale va all’Annina di Mara Zampieri: anche come comprimaria una primadonna resta sempre tale.

 

Traviata
Melodramma in tre atti


cast cast & credits

Diana Damrau (Violetta)

 

Fotografie Brescia e Amisano © Teatro alla Scala





 

 
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