Riccardo Muti, nella fertile nuova giovinezza che sembra attraversare da quando si è insediato allOpera di Roma, ama tornare su titoli affrontati, finora, solo una volta. Eccolo dunque chiudere lanno verdiano con Ernani: opera-cardine per un direttore che, come lui, ha dato un contributo fondamentale a una più consapevole percezione del Verdi degli “anni di galera”, ma con cui si era confrontato solo trentun anni fa, in occasione del suo primo SantAmbrogio scaligero.
Era un Muti diverso, quello di allora, e non solo per ragioni anagrafiche. Se nellErnani del 1982 dovette confrontarsi, forse in parte subendolo (era una bacchetta ospite, non ancora il direttore musicale della Scala), con un cast stellare ma allinsegna dello star-system globalizzato (Domingo, la Freni, Bruson e Ghiaurov non furono tutti ad hoc in questopera), oggi torna sui suoi passi: con una lettura più lirica, forse anche più meditata, dove le voci appaiono meno debordanti e come sussidiarie allarchitettura musicale complessiva. Resta – allora come ora – un suono orchestrale stupefacente per bellezza e ricchezza, capace di coniugare densità e vibratilità, laffondo flessuoso a quello scattante. Lo “specifico” patriottico, invece, oggi ha perso nella sua lettura ogni connotazione barricadiera. Muti, negli anni, ha affinato una concezione aristocratica del Verdi risorgimentale: dunque niente guasconate vocali (che pure hanno spesso rappresentato, anche con grandi direttori, il sale dellErnani); estrema attenzione ai dettagli strumentali, sviscerati non per compiacimento calligrafico, ma alla ricerca della loro più profonda valenza drammaturgica; riconduzione dellopera – più che a una temperie genericamente quarantottesca – al Risorgimento “didattico” e romanticizzato della borghesia illuminata di quegli anni. Come se la dialettica, propria dellErnani, tra abbandono cantabile e ritmi martellanti derivasse dritta dritta da una ballata di Berchet.
Ernani: Luca Salsi (Don Carlo). (c) Silvia Lelli
In questo Muti è egualmente lontano da Mitropoulos come da Schippers, gli altri due direttori che, prima di lui, hanno meglio difeso la causa ernaniana: evita il titanismo del primo, non si limita (come il secondo) a fare di questopera un sublime cappa e spada e soprattutto, rispetto a entrambi, crede in un Ernani integrale. Al contrario dei due illustri colleghi, Muti lavora moltissimo proprio su ciò che – per tradizione – si ometteva: i “da capo” delle cabalette (qui sempre psicologicamente differenziati dalla prima esposizione, in virtù dun sottilissimo gioco dinamico); i “tempi di mezzo” (incredibile come valorizza, focalizzando certe ascendenze rossiniane, quel momento di transizione che è il coro delle ancelle tra laria e la cabaletta di Elvira); tutti quegli episodi di passaggio allapparenza esornativi, come il festoso squarcio corale che apre il secondo atto. Il trattamento del coro è, daltronde, uno dei pilastri della sua concertazione: nella consapevolezza che, anche al di là di Si ridesti il leon di Castiglia (risolto in modo efficacissimo, ma con un clangore forse fin troppo dimostrativo), le masse sono uno dei motori musicali e drammaturgici di questopera.
Questa fedeltà al Verbo dellautore, talvolta, induce Muti a scelte non del tutto congrue rispetto al plateau vocale a disposizione: con un Ernani poco eroico e pochissimo epico, quanto a complessione vocale, come Francesco Meli sarebbe valsa la pena di utilizzare laria alternativa Odi il voto (il primo a sdoganarla, in epoca moderna, fu Pavarotti), che dirotta la fisionomia canora del personaggio verso un taglio più “di grazia”; ed è un peccato rinunciare – in virtù del fatto che la pagina non era originariamente prevista da Verdi – alla cabaletta di Silva quando, come in questesecuzione romana, il miglior elemento del quartetto protagonistico è proprio il basso (un Ildar Abdrazakov fin troppo giovanile per il ruolo, ma che sembra aver raggiunto una perfetta convergenza tra pienezza dei mezzi e maturità interpretativa). Al di là delle preferenze per questo o quel cantante, è però la complessiva omogeneità del cast a garantire perfetto equilibrio: una coesione raggiunta proprio grazie al lavoro di squadra voluto dal concertatore, magari a detrimento della valorizzazione dei singoli. La “compagnia stabile verdiana” che Muti sta edificando in questi anni romani si arricchisce periodicamente di nuovi elementi (Anna Pirozzi, lElvira di questa recita, vi è entrata solo di recente), ma il fatto che si tratti comunque di un nucleo ristretto garantisce un affiatamento che compensa lassenza di autentici mattatori.
Meli sembra aver trovato una sicurezza nel registro acuto che gli mancava: il timbro è privilegiato dalla natura, ma le incertezze al di sopra del passaggio troppo spesso, in passato, infirmavano la tenuta complessiva. Lobiettivo, date le sue caratteristiche vocali, è ritrarre un protagonista pavarottiano, piuttosto che bergonziano o corelliano (con il ciclopico Ernani di Del Monaco lidea del confronto non si pone neppure), incline cioè al lirismo e allamor cortese piuttosto che al fraseggio plastico e allo scatto bruciante: tuttavia, rispetto a Pavarotti, quella di Meli è una tenorilità più smorzata e meno sfavillante, sicché ne sortisce un ritratto franco e gradevole, ma a tratti sottodimensionato e con qualche opacità (le mezzevoci, pur lodevolmente prive di tentazioni falsettistiche, hanno poco corpo).
Ernani. Un momento della messinscena. (c) LellieMasotti
Ancor meno vivido il ritratto di Luca Salsi, baritono di ragguardevole morbidezza e fraseggiatore misurato, dunque, a sua volta, incline a evidenziare in Don Carlo più le soffici profferte dellinnamorato che gli sdegni del monarca. Tanta lodevole correttezza – tra laltro supportata, come nel caso di Meli, da unottima dizione – consente però di rendere giustizia solo a un aspetto del ruolo: i momenti aggressivamente declamatorî dello scontro con Silva, e quegli involi epocali che il terzo atto richiede quando re Carlo si trasforma nellimperatore Carlo V, appaiono quasi disinnescati, complice una serata forse di non perfetta forma.
Leggermente sulle difensive, allinizio, pure lElvira della Pirozzi, piuttosto guardinga in quelle agilità – le sestine alla frase «Saran quegli antri a me», i trilli della cabaletta – che, in Ernani, Ernani involami (affrontato da Muti con un tempo meno spedito rispetto alla tradizione, ma che riporta la pagina alla sua vera dimensione di Andantino), lascerebbero immaginare uneroina di taglia prettamente belcantistica. Mentre quando, a misura che lopera procede, la scrittura si avvia verso una fisionomia vocale da soprano lirico-spinto, la Pirozzi simpone per qualità timbriche (il suo colore ombreggiato è acconcio a un ruolo che insiste spesso sullottava inferiore) e di temperamento, approdando a un ultimo atto davvero emozionante.
Di Abdrazakov – privo di quel gigantismo istrionico caro a molti storici interpreti di Silva, ma impeccabile sotto ogni aspetto – si è già detto, mentre resta di dar conto della messinscena. Tuttavia, non cè molto da dire. Hugo de Ana realizza uno spettacolo sontuoso – soprattutto nei costumi – e di una certa eleganza pittorica, con citazioni di Velázquez (tradizionale riferimento iconografico quando si ha a che fare con Ernani) e Tiziano (relativamente ai suoi ritratti di Carlo V). Ma soprattutto ingenera confusione: lutilizzo di una scena unica (la facciata di un palazzo nobiliare, sia pure con vari accomodamenti di volta in volta) è depistante per unopera che, in ogni quadro, prevede ambientazioni radicalmente diverse; gli innesti mimico-coreografici (curati da Leda Lojodice) appaiono pleonastici; il continuo viavai di figuranti è fumoso, mescolando banditi, famigli di Silva e seguito del re in un indistinto minestrone. E inserire, come in un accesso di horror vacui zeffirelliano, delle vezzose vivandiere nellaccampamento dei banditi vanifica il senso del libretto, quando questi cantano «Che resta al bandito da tutti sfuggito, se manca il bicchier?» e «Nel vino cerchiam almeno un piacer»: con tanto ben di Dio sottomano, non ci si limiterebbe al piacere della bottiglia.
|
|