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L'invenzione della solitudine


  L'invenzione della solitudine
Data di pubblicazione su web 07/12/2013  

 

Mettiamo a confronto due diverse letture critiche de L'invenzione della solitudine di Paul Auster per la regia di Giorgio Gallione. Al centro, in entrambi i casi, l'interpretazione dell'unico attore in scena, Giuseppe Battiston. Proponiamo per prima la recensione della nostra redattrice Caterina Nencetti.

 

 

Fold

 

Non era facile. L’invenzione della solitudine di Paul Auster è un’opera che nasce nell’intimità e per l’intimità. Non è un testo teatrale. Può diventarlo se, oltre che ridurlo, lo si adatta alla personalità dell’attore, al lessico, alla sintassi, ad un’altra vita, che è la nostra. Non c’è rischio di snaturarlo, anzi, è lodevole la presa d’atto che, altrimenti facendo, non si riesce a dirlo, a recitarlo e a sentirlo proprio. Quindi, ripeto, non era facile.

 

Tra le scene di Giorgio Fiorato e sulle note di Stefano Bollani, cerca di orientarsi un Giuseppe Battiston il cui corpo poteva essere strumento preziosissimo alla creazione del personaggio. Figlio, padre, uomo. Costretto all’imbarazzo dalla morte di un padre che non conosce, che ama e odia, che ci descrive prima come il più spietato e un attimo dopo come un samaritano, il protagonista fa i conti con la propria vita di figlio e di padre ugualmente o diversamente non all’altezza.

 

Forse non avremmo dovuto leggere, ma soltanto vedere. Fatto sta che Battiston non convince. Frasi strozzate mirano all’empatia con lo spettatore, ma risultano dette, troppo distaccate e monocordi. Si poteva farne una lettura. Si poteva procedere fissando, con cambi d’interpretazione, i diversi momenti dell’evoluzione psicologica del protagonista e variare, e puntare, su alcuni in particolare, come quello dell’infanzia. Tutto risulta invece sullo stesso piano d’emotività. Tutto troppo alla pari. Solo per alcune battute ironiche o in certi attimi che sembrano di distacco dal racconto, l’affiorare del leggerissimo accento friulano ci cattura, come quando il protagonista ci spiega il gioco che faceva col padre: «Bisognava colpire la moneta con la pallina». Proprio quei momenti, che sembrano di troppo, funzionano.

 

«Un giorno c’è la vita. [...] Poi d’improvviso capita la morte», ma niente ci persuade che quella vita e quella morte siano di un padre perché non sentiamo il figlio. Se non percepiamo l’amore, l’assenza, il dubbio, la ferita, la rabbia e ancora, un qualche esempio di confusione, di incapacità, un perdono forse, semplicemente non ci concentriamo e non ci crediamo.

 

Restiamo così, con la conferma delle grandi capacità di un attore le cui particolarità e curiosità stilistiche non sono state sfruttate. Eppure, non c’erano motivi per non giocarsela.

 

 


Giuseppe Battiston. Foto di Bepi Caroli.


 

 

Segue il parere del nostro collaboratore Gianni Poli.

 

Padre e figlio specchiati in un unico destino

 

In una casa abbandonata, in una camera ingombra di scarpe e di vestiario, torna in visita il Figlio dopo la morte del Padre che vi abitava. Giacche, camicie e scarpe sono disseminate sul pavimento che si riflette sul muro di fondo in uno specchio inclinato e sghembo. Sotto tale metafora visiva della confusione, s’avvia il ricordo scenico, dilagante e tormentoso, del protagonista di L’invenzione della solitudine (1982), romanzo di memorie autobiografiche di Paul Auster. Giorgio Gallione prosegue nell’adattare per la scena i testi che la sua sensibilità accoglie dalla letteratura contemporanea, con un lavoro di originale trasposizione drammaturgica. Qui, nel rispetto delle due parti del libro, Ritratto di un uomo invisibile e Il libro della memoria, si parte dunque dalla condizione di figlio d’un genitore lontano, irriconoscibile e sempre sottrattosi al dialogo, per concludere misurandosi con la propria paternità vissuta nel rapporto con Daniel, nato da un matrimonio ormai finito. Il tema vive in una scrittura precisa e controllata sia nelle emozioni sia nei giudizi. La partecipazione viscerale al dolore e allo smarrimento seguiti alla morte del padre è resa con grande efficacia comunicativa, risultato di mezzi espressivi cauti e smorzati. Pur sempre una narrazione («Ricordo che… Quel giorno… Quando… Una volta…») che affidata all’attore, comporta una mediazione profonda per evidenziare nell’attualità viva del narrante, la vicenda sentita e rielaborata con fatica dal protagonista. Questi si riconosce nel ruolo di interprete, vedendosi mentre agisce e pensa, anche mediante l’effetto di rispecchiamento fisico, speculare.

 

Certo, lo spettacolo è tutto affidato alla presenza forte e delicata di Giuseppe Battiston. Come sciolto dall’impaccio della sua mole, egli vaga lieve e deciso nello spazio, spesso soltanto mentale, animato dagli elementi visivi della scena che percorre e attraversa; delle luci sotto cui variano le apparizioni di particolari significativi, come la collezione di cravatte o il caotico accumulo degli indumenti. Minime le azioni dell’attore, quali raccogliere le scarpe a ricomporne le paia, indossare un cappotto, curvarsi su un libro in un’immaginaria biblioteca dove può leggere le poesie di un figlio giovane, apprendista scrittore a Parigi. Si delinea così il profilo del padre mancato, un uomo «dominato dall’indifferenza», immerso nel «vuoto», rappresentante d’una ansiogena «assenza». Battiston lo analizza con esattezza dolente, con riflussi di rabbia e indignazione, con gesti talvolta sospesi. Come quando da bambino, battezzandosi John, s’identificava cow-boy; o quando invoca, nel balzo d’uno scoiattolo, la leggerezza del volo. Vengono allora i silenzi più lunghi, pause molto sensibili nel ritmo pur sempre ben teso della narrazione. Sono anche i «pieni» delle rare note del pianoforte di Stefano Bollani (non tanto la «musica del caso» che ritma il destino, ma risonanze di un’intimità ferita) a fluttuare nell’atmosfera di lutto e di clausura. In quella ricostruzione frettolosa, scritta nel timore che sparisca l’impressione repentina del trauma, è lo scrittore a sentirsi responsabile di un’«opera» di testimonianza intenta all’oggettivazione, alla fissazione di una realtà in parole poetiche, meno labili della stessa esperienza che le ha catturate. E all’arte di Gallione e del suo interprete a momenti riesce la sospensione dell’incredulità. Verso la fine, gli accenti amorosi si concentrano sulla presenza del figlio, anche attraverso il ricordo del grave incidente toccato al bambino, e della sua guarigione ch’era stata vissuta come una «resurrezione». Diversi momenti rievocano ancora la vita del padre, per dare maggior consistenza a una figura (un fantasma, forse) tardi e parzialmente ricomposta. Il passaggio obbligato il protagonista lo compie nel sogno d’una visione di morte, sovrastato da una metafora di gelo e dall’ossessione d’una bara pronta a inghiottirlo. A quello stato di premonizione fatale, l’attore risponde con toni ancor più sommessi, vocalmente sobri e pregnanti (ottenuti con l’uso del microfono, peccato). E chiude con l’augurio-esortazione al bambino che tiene accanto a sé: «È stato, non sarà più, ma tu ricorda». Un bel monologo, insomma, d’una voce convincente, in una rappresentazione che conferma una consuetudine oggi data come necessaria, purtroppo, nel ricorso all’one-man show, forma invasiva ed esiziale di sostituzione teatrale.

 

 

L'invenzione della solitudine
cast cast & credits
 
 
 

Foto di Bepi Caroli.



 
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