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Scelta gratuita di libertà e di morte

di Gianni Poli
  Antigone
Data di pubblicazione su web 25/10/2013  

 

Lo spettacolo, ambizioso e coraggioso, che si rappresenta al Teatro della Tosse, parte da una scelta tematica e di gusto volta a valorizzare una drammaturgia novecentesca quasi dimenticata. Nella pièce di Jean Anouilh, Emanuele Conte ravvisa elementi d’una attualità persino scomoda; sollecitazioni a una rivalutazione di un momento storico problematico e tuttora interessante per la dimensione sociologica e per l’interpretazione teatrale. L’Antigone recitata a Parigi nel 1944, sotto l’occupazione, aveva certo significato presa di coscienza dell’opposizione civile contro l’invasore. Quella situazione è parsa al regista singolare nell’opera di Anouilh perché proponeva un dilemma universale – quello del conflitto fra le leggi del sentire personale e ragioni di stato – con una dialettica equa nel confronto fra le due fazioni avverse. In effetti, la voce di Antigone veniva allora avvertita soprattutto come esortazione alla libertà, come testimonianza d’una aspirazione pura e disinteressata, oltre il potere prevaricatore sui diritti individuali fondamentali. Del resto l’autore, insofferente ai messaggi politici o moralistici, ribadiva il primato di una teatralità esplicita e consapevole nel demistificare l’illusione naturalistica. Si ricorda l’insuperata analisi di Rosalba Gasparro, per la quale questa Antigone è «priva di quelle connotazioni di obbedienza dottrinale che costituivano la forza dell’eroina sofoclea. Ella muore, infatti, figlia del dubbio e delle contraddizioni e la sua solitudine non appare confortata da alcuna speranza metafisica, mentre la rivolta stessa, infantilmente conclusa, si appalesa senza oggetto, preda dell’ineluttabile sterilità» (Jean Anouilh. Il gioco come ambizione formale, Firenze, La nuova Italia, 1977). La finzione quasi didascalica denunciata dal drammaturgo, con la presentazione preliminare dei ruoli e del disegno seguito dall’azione, presuppone ingenuità e spontaneità, in un quadro convenzionale però riconosciuto e riconoscibile da attori e spettatori, per oltrepassare la realtà apparente e giungere alla verità poetica.

 


Viviana Strambelli, Antigone (foto di Donato Aquaro).


Da tali premesse, Emanuele Conte matura una visione aderente alla smitizzazione dell’antica tragedia sofoclea e che renda plausibili i comportamenti paradossali dei protagonisti dell’anomala tragedia (collocata dall’autore fra le sue pièces noires). I personaggi vivrebbero frustrazione e senso di inutilità per le loro azioni, ripiegate su se stesse, eluse da un potere trasferito altrove. Il dramma muterebbe addirittura in commedia, il duello mortale sembrerebbe assurdo. Così Antigone è una ragazza degli anni Sessanta-Settanta, in t-shirt e pantaloni, coi capelli corti e a piedi scalzi che ascolta rock e disco music in cuffia e scrive slogans anarcoidi sui muri con lo spray. Un confronto col Novecento si ha nell’ambientazione della dimora regale, un grande vano di soggiorno, dai mobili ricoperti con drappi bianchi come per un imminente trasloco, dopo l’intuibile decadenza della casa dai fasti precedenti. Gli attori, tutti sempre in scena come da copione, siedono in disparte quando lasciano l’azione. I costumi connotano i ruoli con forte evidenza. Oltre al dimesso anticonformismo di Antigone, Creonte è in veste da camera, con una minerva a sostenergli il capo, appesantito più dai compiti  d’una sovranità appena accettata, che dall’artrosi incipiente. Ismene, in vestaglia e accessori vezzosi, è una giovane vanitosa e sicura della propria bellezza. Emone si presenta in tenuta da caccia, doppietta compresa. La Nutrice ricalca la figura più tradizionale, nel travestimento dell’attore che la impersona. La Guardia, in divisa d’ordinanza. Euridice, una figura nera in ombra che sferruzza silenziosa.

 


Marco Lubrano e Pietro Fabbri (foto di Donato Aquaro).


Nell’andamento in prevalenza dialogato, lo spettacolo offre diversi passaggi salienti, alcuni, coerenti e coincidenti col testo; altri, introdotti dall’adattamento. L’eliminazione del Coro e del Paggio comportano perdite non decisive nell’insieme. I brevi tagli accelerano il procedere, a volte verbosamente faticoso del dibattito tessuto da Anouilh. La regia incide soprattutto sul senso dell’introduzione e sul finale. Il Prologo, detto dalla voce registrata di Enrico Campanati, illustra i personaggi e al momento in cui descrive la protagonista, cala un fondale con le scritte e i graffiti della contestazione studentesca. Campeggia sopra la poltrona-trono un ritratto di Freud bendato, un Edipo-Freud accecato, simulacro incombente che Creonte scaglierà dal balcone dopo la condanna dell’irriducibile avversaria. Memoria ovvia del Mito fondatore, ma forse anche un richiamo all’influsso della psicoanalisi sull’intelligenza dei comportamenti e dei rapporti umani nella nostra epoca. Se Anouilh infatti intendeva mostrare il determinismo rigido delle implicazioni politiche sulle relazioni interpersonali, un passo di comprensione ulteriore, per il regista, sarebbe facilitato dalla lezione freudiana. Alcuni episodi si distinguono comunque, per il netto rilievo assunto dai personaggi. In sequenza, mostrano il distacco di Antigone da Emone, per un amore nella rinuncia e nella maternità rifiutata. L’abile dissuasione insistita di Creonte sulla decisione di Antigone, fino al plausibile compromesso e la risposta ferma nella scelta gratuita, ma sempre più responsabile, della giovane donna. La rivelazione della natura dei due fratelli, sleali e avidi, usurpatori latenti del regno paterno.

 


Un momento dello spettacolo (foto di Donato Aquaro).


Il finale introduce una rappresentazione sintetica e istantanea del supplizio di Antigone, in un tableau di violenta e inattesa impressione visiva, dove la vittima appare nuda e a braccia aperte, appesa ai fili della propria cintura, in una sorta di crocifissione. Poi si assiste al frettoloso riallestimento del locale, con mobili odierni, verosimilmente un ufficio in cui si gestiranno attività finanziarie. E ancora, improvviso riappare il quadro di Antigone sacrificata, subito cancellato dal buio. In quell’epilogo, così insistito nella ripetizione, non trovo giustificazione né per un supplemento emotivo, né per il progresso conoscitivo ulteriore dei tremendi destini, seppure aggiornati, della Famiglia e della città di Tebe. Legittimo e coerente nell’interpretazione di Conte, lo spettacolo m’è parso meno convincente nelle scelte espressive. Viviana Strambelli, la giovane interprete di Antigone, mostra bella e sicura spontaneità e una certa timidezza negli slanci più appassionati. A volte laconica o monotona nell’aderire alla vocazione, riesce meglio nello stupore infantile che non nell’ascesi rigorosa verso il proprio scopo antieroico e gratuito. Enrico Campanati manifesta una particolare sensibilità paterna, proprio verso la nipote. Ha forse contenuto al massimo il trauma dello scontro diretto nel conflitto generazionale e sedato gli impulsi più violenti alla rivalsa con strumenti razionali. Le sue sfuriate e i suoi cedimenti non rischiano mai l’eccesso, neanche davanti alla scelte fatali, mentre i tentativi di persuasione sono d’una logica calibrata da sapienti sfumature vocali. La Ismene di Francesca Agostini è donna-oggetto, dai boccoli d’oro alle pantofole kitsch. Pietro Fabbri è una Nutrice tenera e affettata, con un accento francesizzante, superfluo nella caratterizzazione comica. Mauro Lamantia è un adolescente Emone scherzoso e candido fin troppo, che subisce il crollo dell’autorevolezza paterna e il rifiuto della sua complicità. Marco Lubrano dà zelo militare parodistico alla Guardia. Una rappresentazione, insomma, di grandi conflitti ideali e non d’altrettanto grandi emozioni, con una disomogenea distribuzione di talenti in una Compagnia giovane, lodevole per impegno e coesione.



Antigone
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