Sorgono i ricordi della persona, mai personaggio, ma artefice devoto alla propria arte, e simpone la memoria della sua opera. Echi appena della sua voce, udita brevemente, e persistenza di alcune immagini-chiave dei suoi spettacoli. E su questi, soprattutto, nemmeno visti, ma un po anche sognati grazie alla mediazione documentaria, mi soffermavo per capire Patrice Chéreau (1944-2013), per descriverlo e forse partecipare alla sua nozione di bellezza, profusa nelle diverse occasioni del suo lavoro di quarantanni per la scena. Torno al suo Teatro come storia compiuta di unimmaginazione, lungo un percorso neppure breve, una vicenda appassionata, al calor bianco, che investe collaboratori e spettatori, critici e compagni davventura.
Nellintensità della vita, emergono tre dimensioni con-fuse della sua personalità, esigente fino al perfezionismo, esposta e responsabile senza falsa modestia, libera e autonoma in ogni sfida creativa. Condizioni dartista singolare e poliedrico che furono sottolineate nelle motivazioni dellattribuzione del Premio Europa per il Teatro a Salonicco nel 2008: «Chéreau ha sottoposto il suo talento alla prova delle tre ipostasi del corpo, cioè del corpo presente a teatro, del corpo cantante nellopera e del corpo riprodotto nel cinema». Armonizzata in queste variazioni, si svela la presenza unitaria del corpo secondo Chéreau, il suo nucleo irriducibile. Dietro una costante sicurezza, dapparenza persino perentoria, si nasconde una fondamentale umbratile inquietudine, pure nella maturità dun artista che non sazzarda a pronunciare parole definitive. Nelloccasione, un bilancio della sua carriera ormai prestigiosa veniva dai più prossimi estimatori, alle cui testimonianze daffetto e ammirazione si mescolavano i rilievi critici che ne storicizzavano la portata degli esiti estetici. Ma Patrice Chéreau accoglieva con naturale disponibilità, esprimendosi in tre lingue, i giornalisti che lo assediavano in conferenza. Abilmente si defilava dal ruolo di fenomeno precoce, di demiurgo, di visionario geniale, di maestro dinterpretazione, per porsi discutibile e ancor enigmatico creatore di racconti drammatici.
Eppure aveva attraversato, negli anni Sessanta, le idee del Teatro Popolare (seminate da Vilar) tentandone versioni «reali» a Sartrouville (con sbilanci finanziari) e a Villeurbanne, complice di Roger Planchon, promotore del TNP decentrato. Anche in Italia, al Piccolo Teatro, aveva agito, auspice Grassi e senziente Strehler, fornendo alcuni esempi dun espressionismo segnato dalla sperimentazione di significati e di stili, con Splendore e morte di Joaquín Murieta (Neruda), Toller (Dorst), La finta serva (Marivaux) e Lulu (Wedekind). Limpegno civile e il rigore estetico – dopo prove nellambito del TNP quali Massacre à Paris (Marlowe), La dispute (Marivaux), Lear (Bond) e Peer Gynt (Ibsen) – trovano una sede ideale al Théâtre des Amandiers di Nanterre, dove il regista, dal 1982 al 1990, anima nuovi, fecondi incontri fra le Arti. Del resto, come drammaturgo informava testi e libretti con coerenti invenzioni (da Litaliana in Algeri a La dispute) e perseguiva un ruolo più completo e funzionale per i cantanti, affinché lopera fosse teatralmente più compiuta. Fra le rappresentazioni memorabili, inserisce le opere sconosciute di Bernard-Marie Koltès, nuovo classico vivente. La scoperta dellautore, «un angelo che sapeva nascondere il notevole orgoglio dietro una grazia eccezionale», provoca unindagine a oltranza ai limiti di se stesso, da Combat de nègre et de chiens a Quai Ouest, da Dans la solitude des champs de coton a Le retour au désert. La passion Koltès risultava esperienza metamorfica, frutto duna drammaturgia poetica sorta da un destino personale condiviso e patito e messa in scena con disturbanti e laceranti visioni. Fino e oltre al lutto per la morte dellautore, che la riedizione di Dans la solitude nel 1995 aveva forse definitivamente sublimato, tanto da rinunciare alla creazione postuma di Roberto Zucco. Nei commenti al Trajet biografico delineato da Colette Godard nel 2007, Chéreau si confessava in rapporto allo sguardo e al giudizio altrui, alludendo alla propria condizione omosessuale affiorata al tempo di Les soldats nel 1967.
Lascesa alla fama, dopo Nanterre, era poi divenuta meno convulsa e più comprensiva dei limiti e dei ritmi creativi, una maggiore cautela nello sfruttare i doni, paradossalmente conquistati con fatica. Così, al Ring di Wagner a Bayreuth (1976) sera affiancato Peer Gynt (1981); a Les paravents (1983) era seguito Hamlet (1988). Dopo una sosta, arricchita da alcuni film significativi (LHomme blessé, Hôtel de France, La Reine Margot e Intimities), simponeva sorprendente la novità di Phèdre di Racine (2003). Indi, letture di testi, con il dolore protagonista, ma per una «promessa di teatro». Promessa purtroppo inadempiuta, benché programmata nel 2014 con Comme il vous plaira di Shakespeare.
Sul filo del ricordo e dellemozione, attitudini e mete si sovrappongono e svagano di fronte allopera recente. In parte li recupero da Jy arriverai un jour, intervista del 2009. Allora, peso, profondità e leggerezza caratterizzavano i modelli cangianti delle sue interpretazioni. Lapporto dellattore supponeva una relazione personale unica e adattiva col personaggio e col momento della rappresentazione; recitare era come scalare una montagna e raggiungere la vetta gratificava forse meno dei «passaggi», i momenti magici delle prove su un palcoscenico vuoto. «Molto mi resta ancora da imparare», ammetteva dopo lallestimento di Tristan und Isolde alla Scala e De la maison des morts nel 2007. Poneva attenzione a non ripetere ciò che aveva già realizzato. Gli importava insomma sempre «andare verso», come lo aveva ammirato in Giorgio Strehler, per «diventare la persona che ancora non era». Quel desiderio, ora finalmente può credersi esaudito.
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