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Ricordo di Patrice Chéreau

di Gianni Poli
  Ricordo di Patrice Chéreau
Data di pubblicazione su web 11/10/2013  

 

Sorgono i ricordi della persona, mai personaggio, ma artefice devoto alla propria arte, e s’impone la memoria della sua opera. Echi appena della sua voce, udita brevemente, e persistenza di alcune immagini-chiave dei suoi spettacoli. E su questi, soprattutto, nemmeno visti, ma un po’ anche sognati grazie alla mediazione documentaria, mi soffermavo per capire Patrice Chéreau (1944-2013), per descriverlo e forse partecipare alla sua nozione di bellezza, profusa nelle diverse occasioni del suo lavoro di quarant’anni per la scena. Torno al suo Teatro come storia compiuta di un’immaginazione, lungo un percorso neppure breve, una vicenda appassionata, al calor bianco, che investe collaboratori e spettatori, critici e compagni d’avventura.

 

Nell’intensità della vita, emergono tre dimensioni con-fuse della sua personalità, esigente fino al perfezionismo, esposta e responsabile senza falsa modestia, libera e autonoma in ogni sfida creativa. Condizioni d’artista singolare e poliedrico che furono sottolineate nelle motivazioni dell’attribuzione del Premio Europa per il Teatro a Salonicco nel 2008: «Chéreau ha sottoposto il suo talento alla prova delle tre ipostasi del corpo, cioè del corpo presente a teatro, del corpo cantante nell’opera e del corpo riprodotto nel cinema». Armonizzata in queste variazioni, si svela la presenza unitaria del corpo secondo Chéreau, il suo nucleo irriducibile. Dietro una costante sicurezza, d’apparenza persino perentoria, si nasconde una fondamentale umbratile inquietudine, pure nella maturità d’un artista che non s’azzarda a pronunciare parole definitive. Nell’occasione, un bilancio della sua carriera ormai prestigiosa veniva dai più prossimi estimatori, alle cui testimonianze d’affetto e ammirazione si mescolavano i rilievi critici che ne storicizzavano la portata degli esiti estetici. Ma Patrice Chéreau accoglieva con naturale disponibilità, esprimendosi in tre lingue, i giornalisti che lo assediavano in conferenza. Abilmente si defilava dal ruolo di fenomeno precoce, di demiurgo, di visionario geniale, di maestro d’interpretazione, per porsi discutibile e ancor enigmatico creatore di racconti drammatici.

 

Eppure aveva attraversato, negli anni Sessanta, le idee del Teatro Popolare (seminate da Vilar) tentandone versioni «reali» a Sartrouville (con sbilanci finanziari) e a Villeurbanne, complice di Roger Planchon, promotore del TNP decentrato. Anche in Italia, al Piccolo Teatro, aveva agito, auspice Grassi e senziente Strehler, fornendo alcuni esempi d’un espressionismo segnato dalla sperimentazione di significati e di stili, con Splendore e morte di Joaquín Murieta (Neruda), Toller (Dorst), La finta serva (Marivaux) e Lulu (Wedekind). L’impegno civile e il rigore estetico – dopo prove nell’ambito del TNP quali Massacre à Paris (Marlowe), La dispute (Marivaux), Lear (Bond) e Peer Gynt (Ibsen) – trovano una sede ideale al Théâtre des Amandiers di Nanterre, dove il regista, dal 1982 al 1990, anima nuovi, fecondi incontri fra le Arti. Del resto, come drammaturgo informava testi e libretti con coerenti invenzioni (da L’italiana in Algeri a La dispute) e perseguiva un ruolo più completo e funzionale per i cantanti, affinché l’opera fosse teatralmente più compiuta. Fra le rappresentazioni memorabili, inserisce le opere sconosciute di Bernard-Marie Koltès, nuovo classico vivente. La scoperta dell’autore, «un angelo che sapeva nascondere il notevole orgoglio dietro una grazia eccezionale», provoca un’indagine a oltranza ai limiti di se stesso, da Combat de nègre et de chiens a Quai Ouest, da Dans la solitude des champs de coton a Le retour au désert. La passion Koltès risultava esperienza metamorfica, frutto d’una drammaturgia poetica sorta da un destino personale condiviso e patito e messa in scena con disturbanti e laceranti visioni. Fino e oltre al lutto per la morte dell’autore, che la riedizione di Dans la solitude nel 1995 aveva forse definitivamente sublimato, tanto da rinunciare alla creazione postuma di Roberto Zucco. Nei commenti al Trajet biografico delineato da Colette Godard nel 2007, Chéreau si confessava in rapporto allo sguardo e al giudizio altrui, alludendo alla propria condizione omosessuale affiorata al tempo di Les soldats nel 1967.

 

L’ascesa alla fama, dopo Nanterre, era poi divenuta meno convulsa e più comprensiva dei limiti e dei ritmi creativi, una maggiore cautela nello sfruttare i doni, paradossalmente conquistati con fatica. Così, al Ring di Wagner a Bayreuth (1976) s’era affiancato Peer Gynt (1981); a Les paravents (1983) era seguito Hamlet (1988). Dopo una sosta, arricchita da alcuni film significativi (L’Homme blessé, Hôtel de France, La Reine Margot e Intimities), s’imponeva sorprendente la novità di Phèdre di Racine (2003). Indi, letture di testi, con il dolore protagonista, ma per una «promessa di teatro». Promessa purtroppo inadempiuta, benché programmata nel 2014 con Comme il vous plaira di Shakespeare.

 

Sul filo del ricordo e dell’emozione, attitudini e mete si sovrappongono e svagano di fronte all’opera recente. In parte li recupero da J’y arriverai un jour, intervista del 2009. Allora, peso, profondità e leggerezza caratterizzavano i modelli cangianti delle sue interpretazioni. L’apporto dell’attore supponeva una relazione personale unica e adattiva col personaggio e col momento della rappresentazione; recitare era come scalare una montagna e raggiungere la vetta gratificava forse meno dei «passaggi», i momenti magici delle prove su un palcoscenico vuoto. «Molto mi resta ancora da imparare», ammetteva dopo l’allestimento di Tristan und Isolde alla Scala e De la maison des morts nel 2007. Poneva attenzione a non ripetere ciò che aveva già realizzato. Gli importava insomma sempre «andare verso», come lo aveva ammirato in Giorgio Strehler, per «diventare la persona che ancora non era». Quel desiderio, ora finalmente può credersi esaudito.




 



 
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