Insostenibile. È questo il primo aggettivo che arriva alla mente dopo aver visto lo stupendo Jiaoyou (Cani randagi). Insostenibile, come solo la vita, a volte, sa essere. Tsai Ming Liang continua a filmare, senza compromessi, il percorso di Hsiao-kang, il personaggio che, come Truffaut con Léaud-Doinel o meglio Chaplin con Charlot, ha cucito addosso al suo attore Lee Kang-sheng, portandolo sempre più ai margini di una società, che non si rende conto del suo fisiologico decadimento.
La crisi irrompe così alla Mostra del Cinema in tutte le sue declinazioni, non solo economica, ma anche sociale, personale, familiare, affettiva, intima. Dopo averci mostrato, dieci anni fa, la crisi del cinema con laltrettanto insostenibile Goodbye Dragon Inn, Liang continua a seguire, per le vie di Taipei, quegli stessi fantasmi che popolavano lultima proiezione di quella sala, quasi a diffondere viralmente all'esterno quella stessa idea terminale di decadenza e disfacimento, sempre permeata da unironia tanto feroce quanto impercettibile, dove i senzatetto diventano invisibili cartelli umani per agenzie immobiliari di lusso. Hsiao-kang è uno di questi cartelli umani che trascina, giorno dopo giorno, la sua vita di ragazzo-padre, dormendo con i due figli dentro un container senza né acqua né elettricità. Il loro percorso si intreccia con quello di una donna sola, che lavora nel supermercato dove i due bambini passano le loro giornate, e che ogni sera porta da mangiare a dei cani randagi che vivono in un palazzo abbandonato. In una notte di tempesta, in cui il padre vorrebbe portare i figli a fare un giro in barca (probabilmente per mettere fine alla loro misera esistenza), i quattro si incontrano, lei riconosce i bambini e li fa scendere dalla barca, convincendo lui a seguirla a casa. Qui i personaggi sembrano recuperare unapparente stabilità, compensandosi lun laltro, proprio come un piccolo branco di cani randagi.
Liang segue con amore e devozione i movimenti e le espressioni dei suoi personaggi, facendone figure tragiche, chiuse nel mero soddisfacimento dei loro bisogni primari (anche fisiologici), il tutto attraverso il suo cinema, anchesso primario ed essenziale, fatto di inquadrature fisse sempre più lunghe, che raramente sfociano nel piano sequenza, perché il montaggio interviene a modificare le dimensioni del campo senza, però, mai intaccare la durata della scena, riscoprendo così la forza espressiva del raccordo sullasse, una forma quasi dimenticata nel cinema contemporaneo fatto di macchine da presa in perenne, e spesso convulso, movimento.
Il terribile viaggio di Tsai Ming Liang attraverso la solitudine, lemarginazione e gli squilibri generati da una società indifferente al destino dei singoli, culmina nella lunghissima sequenza finale, che si chiude in due interminabili inquadrature sui volti e sui profili spettrali dei due protagonisti, costringendo lo spettatore ad osservare ogni particolare, ogni respiro, ogni alito di vita delle due presenze sullo schermo. Di più, ci costringe ad ascoltare i rumori di fondo che li circondano (treni, auto, trasformatori, generatori...), che sono gli stessi nei quali è immersa la nostra esistenza, ormai abituata a confonderli con il silenzio.
Bertolucci chiedeva di essere stupito ed ecco che quasi a chiusura della Mostra arriva questo stupefacente film, straziante nel suo lento e poetico ritmo di lenta melodia.
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