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Ricordo di Massimo Castri

di Roberto Alonge
  Ricordo di Massimo Castri
Data di pubblicazione su web 08/09/2013  

È morto Massimo Castri. È morto il 21 gennaio 2013, a poco meno di settant’anni, in modo sostanzialmente inaspettato, sebbene negli ultimi anni ci fosse stato qualche acciacco, qualche problema, soprattutto di cuore. Dopo la scomparsa di Strehler, la grande strada maestra dell’italico teatro di tradizione perde un altro punto di riferimento. Resiste l’infaticabile Ronconi, ma la strada maestra assomiglia sempre più a un viottolo solitario e molto malmesso.

Castri, peraltro, pur stando nella ristretta cerchia degli spiriti magni della regia, aveva una peculiarità, era l’unico ad essere uomo di libri oltre che uomo di messinscene. Si laurea a Genova nel 1971 con Vito Pandolfi (animatore di teatro di una certa importanza, uno dei primi incaricati di Storia del teatro nella ingessata Università italiana degli anni Settanta), e pubblica quasi immediatamente, nel 1973,  un libro prezioso – accolto da un editore prestigioso come Einaudi –, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud. Sembra l’incipit di una brillante carriera accademica, e non stupisce che un illustre italianista gli proponga un incarico di insegnamento teatrale che Castri comunque rifiuta. Trent’anni più tardi gli chiedono di candidarsi a un concorso di ordinario di Storia del Teatro. Potrebbe essere una stravaganza di qualche barone teatrologico megalomane, una forzatura assoluta, ma all’altezza dei primi anni Duemila Castri ha pubblicato  ormai due altri volumi, Pirandello Ottanta e Ibsen postborghese (Milano, Ubulibri, rispettivamente 1981 e 1984), ricchi di tali e tante intuizioni critiche da far vergognare i molti  asini calzati e vestiti che sono andati in cattedra negli anni allegri di Berlinguer ministro dell’Università. Anche questa volta Castri rifiuta. L’idea lo tenta molto, e per un po’ tiene i commissari sulla corda. Forse alla fine lo spaventa l’idea di dover tenere una lezione (obbligatoria, anche per il concorso a ordinario, quando il candidato non provenga dal ruolo dei professori associati). C’è una fragilità psicologica – in un burbero come Castri, apparentemente così insensibile  – che va colta, e che non dobbiamo sottovalutare (e su cui torneremo).

Ma forse occorre riconoscere un sorta di doppia natura: una pulsione accademico-professorale e una vocazione artistica. Dico doppia natura come se dicessi due binari paralleli, in cui l’uno non interagisce necessariamente sull’altro. Castri era uno studioso vero, con un suo metodo di indagine personale, al tempo stesso limpido e penetrante. Scandagliava un testo fino ai recessi minimi, ma usava quel testo  – amava dire – come mappa di tutta la drammaturgia di quel singolo autore, in un movimento dialettico di andata e ritorno, sicché dall’opera omnia estrapolava concetti che potevano servirgli per decifrare il singolo testo, oggetto del suo lavoro di messinscena. E dello studioso (accademico) Massimo Castri aveva anche qualche tic deontologico, per esempio la paura e la stizza che gli rubassero le sue scoperte. Paolo Puppa pubblica il suo libro ibseniano  (La figlia di Ibsen. Lettura di 'Hedda Gabler') nel 1982, due anni prima di Ibsen postborghese, ma Castri aveva dato da leggere a Puppa i suoi taccuini ibseniani, poi confluiti in Ibsen postborghese. Non so se abbia protestato personalmente con Puppa, ma con me si lamentò vivamente di quello che considerava (a torto o a ragione) un piccolo plagio.

Va osservato in ogni caso che il gusto per  l’analisi critico-ermeneutica che conduce sui libri, a casa sua, è così autentico, e così autonomo, da poter essere anche autonomo dallo spettacolo che contemporaneamente sta costruendo in palcoscenico. Voglio dire che la ricerca  libresca prende talvolta una strada che non è la stessa per la quale si incammina  l’allestimento. Proprio su Hedda Gabler  (e su Ibsen in generale) Castri scrive pagine acutissime e memorabili, cogliendo collegamenti invisibili (agli occhi degli ibsenisti di tutto il mondo, solitamente ciechi e tontoloni), ma è una ricchezza concettuale che non ritroviamo nella Hedda Gabler andata in scena nel 1980. Si rifletta su questa nota: “Una possibile lettura psicoanalitica: Hedda non sa amare perché il suo amore è il padre e le pistole sono il segno della sua profonda identificazione con lui. Si uccide con la pistola del padre (il suo membro). L’orrore dello scandalo sarebbe dunque la razionalizzazione di un altro orrore più vero: quello che un altro uomo (il padre) possa toccare realmente il suo corpo”1. Per Castri Hedda ha solo l’apparenza della 'gran signora', della 'donna fatale', in realtà è una bambina non cresciuta, rimasta legata ossessivamente al padre2. Il merito di Castri è però quello di saper cogliere il tema incestuoso padre-figlia non già come accidente che riguardi solo Hedda Gabler, bensì quale verace filo rosso che attraversa l’intera produzione ibseniana: da Nora di Una casa di bambola, alla piccola Hedvig de L’anitra selvatica, dalla Rebekka di Rosmersholm alla Hilde de Il costruttore Solness3, e si potrebbe aggiungere l’Ellida de La signora del mare, che Castri dimentica in questo passo.

Ecco, rispetto alla genialità di queste intuizioni critiche, è doveroso registrare che la realizzazione scenica va veramente da un’altra parte. Castri capisce bene che c’è una dialettica nella particolare scenografia individuata da Ibsen (il grande salone della mondanità alto borghese, e il salottino che è il sacello del generale Gabler, il luogo della memoria, dove Hedda ha raccolto e riunito i pochi reperti della antica casa di famiglia: il ritratto del generale in divisa, le sue pistole, il pianoforte), ma non ne rispetta le corrispondenze interne, ne stravolge il senso. Per Castri il salottino diventa piuttosto il territorio dei personaggi piccolo-borghesi (la cameriera, zia Julle, lo stesso Tesman), del loro chiacchiericcio  grigio e futile4. Il segno più forte del depistamento è nella manipolazione cui è sottoposto il dipinto: non più il “ritratto di un bell’uomo di una certa età in uniforme di generale”, come vorrebbe Ibsen, bensì la riproduzione di un celebre ritratto di Ibsen. Per Castri, infatti, “l’autore assumerebbe contemporaneamente le caratteristiche del padre e dell’assassino: è lui che fa nascere il personaggio e che lo uccide”5. Ibsen  è il padre di Hedda Gabler (e Hedda è la figlia di Ibsen, per dirla alla Puppa). Castri rinuncia alla dimensione psicanalitica (dove ha offerto gli esiti più affascinanti della sua acribia di lettore di testi), ma perché non avverte una ricaduta di stimoli fantastici in ordine alla creazione dello spettacolo. Il punto è che, se Castri ha doppia natura, comunque alla fine è sempre la natura creativa a spuntarla. Ogni volta che Castri è posto al passo di croce,  al bivio capitale fra percorso accademico-scientifico  e percorso registico, è sempre il secondo a prevalere.

Nel caso in questione Castri rinuncia anche alla dimensione sociologica (Hedda Gabler come documento della crisi della borghesia di fine secolo), per orientarsi piuttosto su un asse che possiamo definire strutturale-metateatrale, e tanto peggio per tutti se l’allestimento resta un’occasione mancata. Castri rimane fedele a un numero ristretto di autori, che considera suoi (Pirandello Ibsen Euripide Goldoni), che continuamente mette e rimette in scena, ma soprattutto rimane fedele alle proprie pulsioni poetiche, ai propri fantasmi. Ho cercato di spiegargli che le traduzioni ibseniane di Anita Rho non sono fededegne, ma non c’è stato niente da fare. Le traduzioni einaudiane della Rho fanno parte del bagaglio culturale del regista, si sono stratificate nella sua memoria, hanno accompagnato la nascita dei suoi interessi per Ibsen, e dunque fanno tutt’uno. Ho nell’orecchio la musicalità della Rho, mi rispondeva, per giustificare che non poteva accogliere la traduzione che  Franco Perrelli aveva approntato per la sua seconda edizione del John Gabriel Borkman. Regista-professore, certo, ma alla resa dei conti finale, più regista che professore.

Insomma, forse – a un certo punto di questi ultimi cinquanta-sessant’anni – ci siamo illusi, abbiamo pensato che il regista reprime la creatività dell’attore per promuovere fino in fondo la creatività  del drammaturgo. In realtà il regista promuove la sua propria creatività, e questo vale anche per il più accademico dei nostri registi. La parola del drammaturgo va bene, ma solo nella misura in cui s’incontra con i fantasmi, i sogni, le ossessioni del regista. D’altra pare – a essere onesti –, di che stupirci? Anche il lavoro del critico di razza funziona nello stesso modo. Leggendo Pirandello, a Umberto Artioli interessava scovare la vena gnostica; non lo appassionava né la dimensione sociologica né quella psicanalitica, che pure è ben possibile ritrovare nel corpus pirandelliano.

Sulle caratteristiche complessive dello stile registico di Massimo Castri ho molto scritto e non è il caso di ripetersi, tanto più in questa sede di intonazione necrologica6.  Giova però insistere su qualche tratto del personaggio rimasto più in ombra. Comincerei da una endiadi, opportunità e curiosità. Castri ci teneva a presentarsi come uomo di progetti, di coerenze culturali, al di fuori dalle logiche casuali del mercato. Ma in realtà – per sopravvivere professionalmente – ha dovuto accettare talvolta di allestire autori che erano estranei ai suoi interessi, ai suoi gusti. In queste operazioni ha messo felicemente in funzione la sua innata curiosità, una certa disponibilità quasi bambinesca ad andare a vedere come è fatto dentro il giocattolo. Originariamente Goldoni era, per lui, qualcosa di scolastico, sorta di reperto museale. La committenza delle celebrazioni del bicentenario della morte l’ha costretto ad allestire I rusteghi, ma, appunto, la costrizione è diventata una opportunità, l’occasione per scoprire un autore, cui diversamente non si sarebbe mai accostato. Goldoni si è allineato così nella lista ristretta degli autori frequentati, accanto a Pirandello Ibsen Euripide, e la Trilogia della villeggiatura è forse il capolavoro assoluto della scrittura scenica del nostro, che meriterebbe almeno una tesi di dottorato.

L’altro punto che vorrei evidenziare è l’aspirazione (sempre frustrata) di Castri a essere uomo delle Istituzioni, forse sotto lo stimolo di una sostanziale ingenuità adolescenziale che bene si accoppia alla curiosità bambinesca di cui ho parlato. Certo, ha cinquant’anni quando – durante la settimana di Gargnano che Paolo Bosisio gli  dedica – lamenta che lo stato italiano sovvenzioni teatro pubblico e teatro privato, anziché investire unicamente nel teatro pubblico, o quando protesta per la mancanza – in Italia – di un teatro di repertorio, o anche semplicemente di un teatro veramente stabile, con attori uniti da contratto per un certo numero di anni7. E ne ha sessanta quando diventa direttore del Teatro Stabile di Torino. È all’apice della sua carriera, ed è per la prima volta nella sua vita alla testa di un grande teatro stabile, senza paragone rispetto alle esperienze precedenti (Brescia o Prato). Potrebbe sfruttare l’occasione per fare  meglio – con più soldi –  quello che sa fare. E invece no. Castri è fedele ai suoi sogni, crede sia l’occasione buona per fare una sana politica culturale. Invece di produrre spettacoli (che farà solo nella parte finale del suo mandato, e  saranno solo due), si mette a fare il ragionier contabile, a fare di conto, combatte con il Consiglio di Amministrazione, lavora dieci-dodici ore al giorno con il fido Marco Plini, occupandosi in prima persona di tutto, financo delle  minutaglie, del prezzo dei biglietti per gli studenti dell’Università, con cui vorrebbe firmare una convenzione. Arriva a organizzare una conferenza stampa in pompa magna, tenuta nella sede del DAMS torinese, per  annunciare che si farà una convenzione con l’Università. Un eccesso di entusiasmo che forse denota candore o fragilità. Certo, è tutto inutile, tutta fatica sprecata. Forse non ha saputo creare una squadra cui delegare, forse non ha saputo attivare meccanismi diplomatici o non ha voluto accettare compromessi. Comunque, alla resa dei conti, ha visto in faccia l’orribile Gorgone, ha scoperto quello che tutti sappiamo, ma che cerchiamo di rimuovere. Che il teatro, in Italia,  è solo un luogo di affari, e che gli assessori alla cultura di sinistra sono peggio di quelli della vecchia DC degli anni Sessanta. Hanno letto qualche libro di più, ma proprio per questo sono più pericolosi. Rivendicano una loro linea politico-culturale di ampio raggio, nel cui quadro peraltro il teatro è solo una tessera. Dunque, che il direttore del teatro stabile si accontenti di fare i suoi spettacoli, e, per il resto, lasci fare a Mecenate.

S’intende che Castri se ne va sbattendo la porta, dando le dimissioni.  

Ma l’esperienza è stata dura, e l’ha segnato. Dopo Torino, negli ultimi dieci anni, Castri è stato tenuto a distanza, nel panorama italiano. Non precisamente emarginato, ma certo guardato con sospetto. Uno che voleva far funzionare le Istituzioni. Ohibò, in Italia non si fa, non è questo il modo di comportarsi. Non so se tutto questo c’entri con la malattia e la morte. Io penso che ci si ammala e si muore quando non si ha più voglia di vivere, anche se non ce lo diciamo. Ma forse io esagero. Certo non si capisce bene che malattia abbia avuto, Massimo Castri. E’ sembrato il frutto di una ischemia, ma dell’ischemia non si sono trovate le tracce. Il cuore, ma non c’è stato infarto. Chissà. Forse ce lo dirà lui, perché è successo, se lo incontriamo, naturalmente.


1. Massimo Castri, Ibsen postborghese, Milano, Ubulibri, 1984, p. 121.
2. Cfr. Ivi, p. 130.
3. Cfr. Ivi, pp. 134-135, 140-142.
4. Rimando alla mia analisi in Roberto Alonge, Il teatro di Massimo Castri, Roma,  Bulzoni, 2003, pp. 56-58.
5. Massimo Castri, Ibsen postborghese, cit., p. 116.
6. Oltre alla monografia  Il teatro di Massimo Castri, cit., si vedano: Il teatro italiano di tradizione, in Storia del teatro moderno e contemporaneo,  diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000-2003, vol. III, pp. 665-672;  Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 126-131; Nuovo manuale di storia del teatro. Quell’oscuro oggetto del desiderio, Torino, Utet, 2008, pp. 273-275; Le Retour de la villégiature, III, 2 dans le triangle Strehler-Missiroli-Castri, in “Il castello di Elsinore”, 66, 2012, pp. 105-113; La ‘Trilogia’ alla Comédie Française. Un Goldoni senza realismo, in “Studi goldoniani”, 1, 2012, pp. 135-143.
7. Cfr. AA.VV., Massimo Castri e il suo teatro, a cura di Isabella Innamorati, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 172-173, 147-148, 163-166.

 



Valeria Moriconi e Alarico Salaroli in Hedda Gabler di Ibsen (1980).
Valeria Moriconi e Antonio Francioni in Hedda Gabler di Henrik Ibsen (1980).
©Centro Valeria Moriconi.



Ilaria Occhini e Massimo Castri in una prova del  John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen (2002). © Teatro Stabile di Torino
Ilaria Occhini e Massimo Castri in una prova del John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen (2002). © Teatro Stabile di Torino


Luciano Roman e Sonia Bergamasco in Le smanie della vileggiatura di Carlo Goldoni (1995). ©Teatro Stabile dell'Umbria.
Luciano Roman e Sonia Bergamasco ne Le smanie per la vileggiatura di Carlo Goldoni (1995).
©Teatro Stabile dell'Umbria.



 
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