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L'ambizione delusa

di Giovanni Fornaro
  L'ambizione delusa
Data di pubblicazione su web 28/08/2013  


Nel segno di un rinnovato interesse verso il comico, almeno per la scelta delle opere inaugurali, l’edizione 2013 del festival della Valle d’Itria di Martina Franca recupera, in prima assoluta in tempi moderni e in forma scenica, una creazione tarda di Leonardo Leo, la commedia pastorale in tre atti L’ambizione delusa, libretto di Domenico Canicà, rappresentata per la prima volta al Teatro Nuovo sopra Toledo (al Montecalvario) di Napoli nel 1742, ma composta due anni prima, quando il musicista pugliese era ancora in predicato di diventare primo maestro al Conservatorio della Pietà dei Turchini.

 

La genesi del libretto è particolarmente complessa e interessante, innestandosi in quel filone di opere italiane settecentesche - in particolare, meridionali - che pongono in primo piano gli ultimi, i poveri, i semplici, ma (ovviamente) con una lettura ‘dall’esterno’, cioè colta e d’élite, appena stemperata da più recenti fruizioni del teatro comico da parte di un emergente ceto borghese.

 

In La Madama Ciana La Finta cameriera, entrambe del decennio precedente e con musica di Gaetano Latilla, si possono ravvisare gli antesignani più diretti alla storia agreste de L’ambizione, in cui proprio le attese di ascesa sociale di contadini, camerieri e servitori sono ridicolizzate a uso e consumo di coloro i quali, invece, il potere lo tengono ben saldo nelle proprie mani. Certo, le illuministiche preoccupazioni verso una presa di coscienza più ‘politica’ di ceti diversi da quelli dominanti sono, nel 1740, ancora di la da venire: per ora può essere sufficiente disattivarne le aspirazioni attraverso meccanismi culturali che, mettendoli alla berlina, ne svuotino la potenziale carica eversiva e divertano signori e ricchi commercianti della ritrovata corona napoletana (il viceregno cessa nel 1734).

 

In questo contesto, Leo e Canicà imbastiscono un’opera abbastanza estesa, tre atti per più di tre ore di musica, in cui la comicità nasce, come scrive Daniela Rota nel libro di sala, «dal contrasto tra ciò che i personaggi sono realmente (caprai contadini), ciò che fingono di essere (Baroni o Podestà) e ciò che ambiscono a diventare (Signorini e Madame)».

 

Si tratta di un meccanismo che poi si trasferirà, più di un secolo dopo, anche nel teatro, tra gli altri, di un capocomico e commediografo come Eduardo Scarpetta, la cui notissima Miseria e Nobiltà (indimenticabili, per noi mediatizzati, le due versioni televisive del figlio Eduardo De Filippo e quella cinematografica di Totò) deriva in modo diretto dai plot delle opere musicate da Latilla e Leo.

 

La presa in giro dei due fratelli contadini Lupino e Cintia, ereditieri di una improvvisa fortuna e subito tendenti a modi e atteggiamenti ‘da signori’, procede, nel libretto, attraverso l’interazione con una serie di altri personaggi, tutti però estranei al ceto nobiliare, in primis grazie al corto circuito provocato dall’utilizzo di una lingua che costituisce una sorta di miscuglio sgrammaticato tra campano settecentesco, italiano, francese, tedesco e latinismi, adattati alla bisogna e al livello culturale dei parlanti; in secondo luogo, mediante la costruzione di una serie di scene (in totale sono 42) in cui la comicità è provocata dalla totale alterità dei modi di una vita da ricchi signori (quale si svolgeva nella Napoli della prima metà del Settecento), in rapporto all’alterata percezione che nel contado se ne aveva.

 

I personaggi cui si accennava sono un capraio, un fattore, una cameriera; questa, dal nome Delfina, è l’unica che conosca gli usi cittadini e per questo viene ingaggiata dai due ex-contadini, allo scopo di ‘educarli’ alla vita e alle maniere dei ricchi.

A movimentare l’azione, oltre all’ironia pervasiva sulle insulse ambizioni dei protagonisti principali, si ritrovano le immancabili schermaglie amorose che variamente si intrecciano e si incrociano fra i personaggi.

 

A fronte di un plot da commedia agreste e molto piacevole, abbiamo davanti una partitura davvero bellissima, ricca di melodie meravigliose e originali, cui Leo affianca un accompagnamento in contrappunto, più che una armonizzazione, in cui riluce la grande perizia che il maestro pugliese aveva da tempo acquisito. La musica, a ben guardare, non procede sempre per arie movimentate e allegre, come un libretto così congeniato lascerebbe supporre, ma lascia invece ampi spazi a quell’elemento che in tempi passati sarebbe stato definito patetico, cioè a espressioni musicali più dispiegate e distese, costruite spesso in tonalità minore, correlate a momenti, sicuramente meditativi, in cui il personaggio sente il bisogno di mettere a parte il pubblico delle proprie emozioni più segrete e riservate. Questo è evidente soprattutto per alcuni personaggi, come i contralti Silvio e Foresto, per i quali la partitura prevede esclusivamente ruoli eroico-sentimentali, mentre per i due protagonisti principali sono previste in egual modo arie dell’uno e dell’altro tenore.

 

Ciò non toglie che si possa godere di molti momenti davvero esilaranti, ad esempio nei dialoghi che Cintia e Lupino intrattengono con Delfina, spesso spazientita dalla loro ignoranza, e ancor meglio quando interviene Ciaccone, il pastore innamorato della cameriera, al quale Canicà riserva momenti davvero esilaranti, soprattutto quando cerca di ‘parlar cittadino’, nei finti panni – di volta in volta – di un Barone e di un Podestà, sempre sollecitato al travestimento dai fini amorosi di Silvio, pastore gentile fidanzato storico di Cintia.

 

L’allestimento della regista Caterina Panti Liberovici, con le scene di Sergio Mariotti e i costumi di Caterina Botticelli, è stato un po’ compresso dalla collocazione nel pur splendido chiostro della chiesa barocca di San Domenico. Sebbene collocato su due livelli con un magnifico balcone a ringhiera al primo piano, esso consentiva solo una lunga e sottile striscia calpestabile, con qualche problema di entrata e uscita di quinta. La scelta di astrarre completamente le scene dall’ambientazione d’epoca originaria, per collocarla in un metafisico spazio allegorico, con molti elementi scenici simbolici (palloncini che decollano, scale inutilizzate, la pantomima della pantera interpretata da uno dei cantanti, una ‘batmaniana’ ombra di pipistrello che si proietta in scena), pur rispettabile e coerente, non sempre ha giovato all’azione e ai sentimenti espressi nel libretto, allontanando un po’ l’attenzione dalla trama della storia.

 

Per fortuna ci pensano i calambours linguistici a riportare tutti con i piedi per terra: quando Ciaccone declama alla sua bella Delfina «Si la tua fordimabile bellezza/Ha vottato il mio core/Dento d’un Chiavicone di dorcezza» (atto II, scena V), l’ilarità diventa incontenibile e la concentrazione ritorna subito, complice anche, proprio in questa scena, il sensualissimo spogliarello di Filomena Diodati, una Delfina dalla voce sopranile particolarmente bella e dalla “presenza” davvero molto sexy (rimarchevole, in tal senso, anche alla fine del III atto, dove canta benissimo «Sempe, ch’io miro» e in cui appare con un bellissimo vestito di raso nero e il cappello ‘sulle 23’). A suo favore hanno sicuramente giocato le sue pregresse esperienze con la più importante orchestra barocca del Meridione, I Turchini di Antonio Florio.

 

Anche Michela Antenucci (Cintia) mostra doti vocali eccellenti, sia nelle molte arie in ‘a solo’ (e con ‘da capo’) che nell’unico duetto dell’opera, lo straordinariamente bello «Per te mi sento in petto/Cara del mio dolore» (atto III, scena XIV), in coppia con la bravissima Federica Carnevale nel ruolo en travesti di Silvio.


Anche le altre voci femminili sono apparse molto interessanti e timbricamente belle (Candida Guida come Foresto, Alessia Martino come Laurina), tenendo conto che tutti i cantanti sono giovani allievi dell’'Accademia del Belcanto Rodolfo Celletti', costola della Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca. Un po’ meno interessanti erano le voci maschili, comunque corrette: Gianpiero Cicino (Ciaccone, un ruolo interessantissimo ma molto difficile da sostenere, dal punto di vista del canto) e Riccardo Gagliardi (Lupino).

 

L’Orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto, benché abbia valenti strumentisti, non è compagine barocca e non suona strumenti d’epoca, come invece è ormai prassi consolidata per questi repertori. Qui cerca, con gesti più adeguati e ‘corti’ (esempio: l’impugnatura dell’arco più arretrata), di ottenere un suono coerente, grazie anche alla guida del direttore e maestro al cembalo Antonio Greco, con effetti di un certo gusto.




L'ambizione delusa



cast cast & credits



© Festival della Valle d’Itria

due momenti dello spettacolo.


© Festival della Valle d’Itria

credits © Festival della Valle d’Itria







 
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