Se Verdi – con lavallo del dramma di Schiller – concepì una Giovanna dArco che muore in battaglia anziché sul rogo, non cè da fare troppe storie se il regista Fabio Ceresa si prende ulteriori libertà, mostrando la «pulzella dOrleans» in situazioni abbastanza incompatibili con il suo stato virgineo: nello spettacolo di Martina Franca la «vergine guerriera» si rotola e si avvinghia con i demoni tentatori, insufflando più dun barlume di lucidità alla denuncia del padre, che accusa la figlia di commercio carnale con il Maligno; e lamplesso con cui si abbandona a Carlo VII rende qui farisaica la battuta del sovrano, quando, preoccupatissimo, le chiede poi conferma della sua purezza.
Quasi tutto si può fare in teatro, tanto più che il libretto di Solera sfiora più volte – e non sempre involontariamente – il parodistico: resta però da vedere come farlo. Poco sensibile alla dimensione contemplativa del «dramma lirico» (denominazione della Giovanna dArco in partitura), ma anche indifferente alla tempestosità della «tragedia romantica» (definizione data da Schiller per la sua Die Jungfrau von Orleans), il regista si lascia sfuggire quel meccanismo di superstizione/redenzione che fa oscillare lopera tra il barbarico e il catartico, giocando la carta di uniconoclastia del tutto innocua nei suoi esiti visivi tiepidi e un po raffazzonati. I movimenti coreografici di Luciana Fumarola, chiamati a conferire plasticità alle tentazioni demoniache, hanno infatti la carica osée di un balletto da varietà televisivo; il budget limitato costringe a un impianto scenico fisso e multiuso che la regia non riesce a vivificare, in unomogeneizzazione tra ambienti di corte e selve rupestri, campi di battaglia inglesi e avamposti francesi che disorienta lo spettatore e disinnesca la drammaturgia; mentre la “profanazione” della protagonista resta di fatto solo abbozzata, limitandosi a prosaicizzarne i connotati: una Giovanna non più santa ma brava ragazza comunque, non più guerriera esaltata ma coraggiosa soldatina.
un momento dello spettacolo © foto Laera
La lettura musicale segue una strada ancora diversa. Negli anni, ormai lontani, della direzione artistica di Rodolfo Celletti il Festival della Valle dItria aveva più volte giocato la carta dei recuperi stilistici, delle riproposizioni di moduli vocali soppiantati dalla tradizione: talvolta con esiti filologicamente illuminanti, talaltra con risultati dal sapore di ricostruzione a freddo fatta in laboratorio. Tra questi ultimi – a parere di chi scrive – rientrarono le opere del primo Verdi proposte, tra la fine degli anni Ottanta e linizio del decennio successivo, a Martina Franca: un Attila e un Ernani artatamente ricondotti a una dimensione quasi soltanto belcantistica, nel tentativo di predatare un autore progressista come Verdi e rapportarlo a una temperie belliniano-donizettiana, dimenticando peraltro quanto Bellini e Donizetti fossero, a loro volta, operisti proiettati in avanti, svincolati dalle maglie dun belcantismo fine a se stesso. E se allepoca unoperazione del genere poteva acquistare valore polemico, volto a mettere in discussione una tradizione ancora viva nellimmaginario del pubblico (lErnani di Del Monaco, ad esempio), oggi che di simili voci si è perso lo stampo, e la Belcanto renaissance ha assunto toni addirittura fondamentalisti, essa appare molto più pretestuosa.
Sta di fatto che con questa Giovanna dArco si è voluto tentare unoperazione analoga, come le stesse note del programma di sala dichiarano esplicitamente: qui la “predatazione” è passata attraverso una bacchetta – quella di Riccardo Frizza – che, una decina di anni fa, aveva avuto un notevole lancio in veste di direttore rossiniano e una primadonna – Jessica Pratt – fino ad oggi accreditata soprattutto come virtuosa belliniana e donizettiana. Almeno per quanto riguarda Frizza il risultato è deludente: i suoi trascorsi in Rossini gli assicurano un buon governo del “crescendo”, a cominciare da quello allinizio della Sinfonia, ma la lettura complessiva risulta più incline al languido che a quella soavità trasognata in cui la “bellinizzazione” della partitura – teoricamente – avrebbe dovuto risolversi. E la sostanziale debolezza del passo narrativo si riverbera sullarchitettura dei singoli brani: a cominciare proprio dallOuverture, paratatticamente frazionata tra pennellate bucoliche e affondi guerreschi, privando di campata unitaria una tra le massime creazioni sinfoniche verdiane.
un momento dello spettacolo © foto Laera
Cantante dove le notevoli risorse espressive sono direttamente collegate al dominio tecnico, la Pratt non riesce, come Giovanna, a creare un vero personaggio: le manca unadesione temperamentale al ruolo (che, pure a voler sposare il punto di vista di una Giovanna dArco eminentemente elegiaca, non può prescindere dallo scatto bellicoso e da unesaltazione ai limiti del fanatismo) e, daltronde, la scrittura vocale solo di rado mette in luce le sue qualità migliori (purezza del suono, nitore della coloratura), sottolineando invece i limiti della zona medio-grave del suo strumento. Tuttavia, con alto professionismo, la Pratt non bluffa mai: canta sempre con la propria voce, ricca e limpida in alto ma meno privilegiata in prima ottava, senza cercare una pienezza sonora lì dove essa non cè. Sono questa musicalità che non conosce cedimenti e questo aplomb costante a conferire omogeneità ad una prova altrimenti intermittente: circospetta nella cavatina, compenetrata nella sobria nostalgia di O fatidica foresta, serena più che estatica nelladdio conclusivo alla bandiera.
Jean-Francois Borras ha risorse timbriche di notevole gradevolezza, che sarebbero ancor più piacevoli con qualche tentazione falsettistica in meno: ma è uno dei corollari della retrodatazione stilistica di questa Giovanna dArco riportare Carlo VII nellalveo di una tenorilità angelicata, dalle sonorità non sempre virili nei momenti più dolci. Condivisibile o meno sul fronte dello stile, la scelta delude sul piano interpretativo: quello della Giovanna è un tenore perdente e “passivo”, ma – proprio per questo – moderno; ragguagliarlo a cesellati canoni protoromantici ne smussa la novità drammatica, il suo anticipare alla lontana lantieroismo di Don Carlo. Più sostanzioso il ritratto canoro del baritono Julian Kim, giustamente propenso – sembrerebbe – a sottolineare lo scabro misticismo di Giacomo, anziché i suoi inverosimili tormenti paterni. Oltremodo abborracciata invece la prova del coro del Teatro Petruzzelli (che tra laltro nel secondo atto ha cantato al leggìo), impegnato per la prima volta al Festival della Valle dItria. Va detto che il coro di Bratislava utilizzato per anni a Martina Franca offriva prestazioni più rassicuranti, quanto ad appiombo e precisione.
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