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Svolta buffa a Martina Franca

di Giovanni Fornaro
  Crispino e la Comare
Data di pubblicazione su web 18/07/2013  

 

Virata comico-farsesca per l’inaugurazione dell’edizione 2013 del Festival della Valle d’Itria di Martina Franca. Al suo quarto anno di direzione artistica, Alberto Triola presenta l’ultima propaggine della antica tradizione buffa dell’opera italiana, Crispino e la Comare, opera in quattro atti con libretto di Francesco Maria Piave, musica dei napoletani Luigi e Federico Ricci, prima rappresentazione Venezia 1850 e una lunga fortuna in teatri di tutte le latitudini, per poi essere dimenticata con l’avvento delle urgenze novecentesche. Riprese moderne dagli anni ’80, fra le quali va segnalata (per invenzione artistica e aderenza ideale alla tradizione comica napoletana, a cui l’opera dei Ricci appartiene) l’edizione curata da Roberto De Simone al San Carlo di Napoli (1984), poi ripresa alla Fenice nel 1986 e nello stesso anno al teatro dei Champs-Élysées di Parigi.

 

I due fratelli Ricci avevano differente personalità e godevano di diversa considerazione tra il pubblico e i critici dell’epoca, ma Crispino è stato sicuramente il loro più riuscito successo, in un momento in cui la tradizione dell’opera buffa italiana era ormai quasi cessata e lo stesso Verdi, molto più tardi, nell’ultimo suo mirabile divertimento in questo campo minato, produsse in realtà tutt’altra cosa (mi riferisco ovviamente al Falstaff).

 

Ad ogni modo, fu proprio un collaboratore di Verdi a scrivere il libretto dell’opera dei Ricci, quel Francesco Maria Piave che per il Maestro avrebbe ideato fior di versi come quelli di Rigoletto, Ernani, La traviata, Macbeth, La forza del destino e che, in questa occasione, trasse ispirazione da una serie di realizzazioni precedenti (un libretto del 1832 per Giuseppe Curci, una commedia del 1827 ca. di Salvatore Fabbrichesi e un abbozzo teatrale francese di Noël Le Breton del 1647).

 


Foto Laera.

 
Il plot è lineare ma presenta alcuni tratti interessanti per l’introduzione di elementi magico-soprannaturali. Mi riferisco al personaggio della Comare, il quale appare allo spiantato ciabattino Crispino come sua fortuna: lo rende ricco e famoso grazie a presunte capacità taumaturgiche che egli in realtà non possiede, aiutandolo nelle diagnosi mediche grazie al fatto di rendersi visibile nei pressi di coloro che stanno per passare a miglior vita. Crispino viene inizialmente deriso sia del popolo che da medici e farmacisti, ma tutti si ricredono quando le guarigioni effettivamente si verificano e questo, apparentemente, grazie a ricette espresse in un esilarante “latinorum” maccheronico.

 

Il dramma si attiva nella seconda parte dell’opera, quando Crispino ostenta tale sicurezza per le sue capacità da snobbare non solo Annetta, la moglie, ma anche la Comare la quale, essendo in realtà la Morte, lo punisce trascinandolo con sé negli inferi. Come in ogni commedia che si rispetti, sarà l’amore del ciabattino per la moglie e i figli a muovere a compassione la Comare, che lo lascerà tornare alla vita e ai suoi cari.

 

Un’opera di questo genere, in cui la partitura, pur molto piacevole (anche perché vi si avvertono echi dell’antico vaudeville così come prodromi della agiata e allegra vita viennese fin de siécle) e concertata con carattere dal giovane ma talentuoso Jader Bignami, non è certo espressione di uno o più geni musicali, può essere oggi rappresentata solo in due modi: o si cerca di cogliere lo spirito dell’epoca, un po’ sospeso nel tempo e con lontani echi della Commedia dell’Arte napoletana – è il caso della versione di Roberto De Simone, che infatti inserì il cantastorie Pino De Vittorio negli intervalli –, oppure si attualizza il tutto, avvantaggiandosi del fatto che non sono presenti riferimenti a fatti storicamente definiti.

 

L’operazione effettuata dal giovane e promettente regista sudafricano Alessandro Talevi, molto attivo in area anglosassone per allestimenti particolarmente interessanti e ricchi di personalità e ironia, è di secondo tipo, per cui si svolge in un presente molto “attuale”, fatto di edonismo post-reaganiano e di attenzione all’immagine, al “qui e ora” che esclude il perseguimento dei propri fini attraverso lo studio e la fatica. In questa prospettiva, Crispino è il paradigma della società dei reality show, in cui un parvenu illetterato e sfaticato riesce a ottenere un successo senza meriti provocando, per giunta, l’invidia del “popolino”, cioè di coloro i quali vorrebbero essere al suo posto per godere di quel quarto d’ora di notorietà che, illusoriamente, può costituire una svolta nella vita di ognuno.

 

Ecco allora che sul palcoscenico-campiello (scene di Ruth Sutcliffe) di una Venezia molto “quartiere” napoletano, con falsi cartelloni pubblicitari parodizzati, i turisti e gli avventori, fra bancarelle e negozietti, fanno a gara per fotografare (coi telefoni cellulari!) il ciabattino Crispino raggiunto dal successo che balla, in completo di pelle e occhiali scuri, come una sorta di ragazzo-cubo, mentre la moglie Annetta si pavoneggia in pelliccia e con un delizioso barboncino (vero: appartiene al protagonista, il baritono-basso Domenico Colajanni). Le invenzioni e i calembour, come anche i giochi di parole presenti nel libretto stesso, non si esauriscono certo qui, essendo disseminati per tutti e quattro gli atti (accenti patetici solo nel già descritto finale). Ricordo, ad esempio, con particolare e ilare piacere, come Crispino e la moglie, durante un duetto cantato, accennino a passi del “Tuca Tuca” che Raffaella Carrà e Alberto Sordi ballarono in tv durante una famosa “Canzonissima”, o all’allocuzione in dialetto locale espressa dal protagonista quando scopre che la Comare non è una fata (“Iè ‘na strega!”).
 


Foto Laera.
 

Mi sembra evidente come vero mattatore dello spettacolo sia stato proprio Colajanni, un folletto in scena che riesce a esprimere una miriade di espressioni, stati d’animo, sentimenti, passando senza problemi dagli uni agli altri e cantando la parte in modo davvero preciso e raffinato.

 

Se sua moglie Annetta, il noto soprano Stefania Bonfadelli, non sembra essere sempre in sintonia con la parte (qualche intro un po’ affrettato, ad esempio), è apparsa invece davvero perfetta la Comare, il contralto Romina Boscolo, dalla voce bassa a sufficienza da apparire, almeno qui, molto “sinistra” e iconizzata, oltre che quale “madonna” da festa popolare piedigrottese, come novella vamp televisiva: infatti, nel bel libro di sala, i bozzetti relativi ai suoi vestiti (bei costumi di Manuel Pedretti) presentano il volto di Gina Lollobrigida.

 

Le voci maschili sono tutte interessanti: Fabrizio Paesano ha una bella voce tenorile per il suo ruolo, minore, di Contino del Fiore e bravi sono Mattia Olivieri (il dottor Fabrizio, cui è riservata la bellissima aria «Io sono un po’ filosofo», con la quale ha suscitato vivi e convinti applausi), Alessandro Spina (un austero Mirabolano) e Carmine Monaco (don Asdrubale). Completano il cast vocale Lucia Conte (Lisetta) e Francesco Castoro (Bortolo). L’orchestra, in “parte” ma con alcune sbavature, era l’Orchestra Internazionale d’Italia mentre il magnifico coro, preparato perfettamente da Franco Sebastiani, è quello del teatro Petruzzelli di Bari, una collaborazione con l’omonima fondazione musicale pugliese che auspico possa apportare nuova linfa agli allestimenti futuri.

 

 

Crispino e la Comare
melodramma fantastico-giocoso in quattro atti


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