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Il barbiere del futuro

di Paolo Patrizi
  Der Barbier von Bagdad
Data di pubblicazione su web 08/07/2013  

 

Rossini non si mostrò interessato, nel suo Barbiere, a evocare la componente moresca di Siviglia: una quarantina d’anni dopo sarebbe stato Peter Cornelius a dar vita a un barbitonsore tutto al profumo d’Arabia, in quella partitura non altrettanto geniale e scintillante, ma pur sempre di altissima fattura, che è Der Barbier von Bagdad.

 

Tentativo estremo, da parte del teatro musicale tedesco, di conferire alla komische Oper una dignità stilistico-musicale inattaccabile sottraendola alle maglie del Singspiel (ormai antistoriche nei tardi anni cinquanta dell’Ottocento), il Barbiere di Cornelius paga il prezzo di quest’ambizione ottenendo un esito non irresistibile proprio in termini di comicità: almeno se confrontato con quegli autori di poco precedenti, da Lortzing a Nicolai, che seppero rinnovare il genere buffo dall’interno, senza rivoluzioni stilistiche. D’altronde la sfida di Cornelius, a posteriori, sembrerebbe proprio questa: una farsa con un linguaggio della grande musica sinfonico-vocale, una buffoneria esotica senza il crepitio baluginante delle “turcherie” di antica memoria mozartiana e weberiana.
 


Un momento dell'opera. Credits: Andrea Kremper

 

Se il soggetto è tratto dalle Mille e una notte, il triangolo con la bella sottochiave, il giovanotto spasimante e il barbiere paraninfo ricalca in modo abbastanza esplicito quello Rosina-Almaviva-Figaro; e il personaggio di Botsana – nominalmente amica e confidente della giovane innamorata – ha un così evidente sentore di ruffianeria e venalità da apparire un Don Basilio in gonnella. Le analogie, però, sono solo di facciata ed è soprattutto il Barbier eponimo ad apparire lontanissimo dal Figaro rossiniano: lì un baritono giovanile e picaresco, sonoro e capace di ascendere al Sol acuto; qui un basso profondo, all’occorrenza profondissimo (anche se con intenti caricaturali), che plasma la fisionomia vocale di un anziano logorroico e ipocondriaco. E se in Figaro la forma mentis del servo scaltro sopravanza la dimensione del barbiere-cerusico, nell’Abdul Hassan creato da Cornelius è l’intellettuale velleitario a prevalere, con la memorabile tirata «Bin Akademiker, Doktor und Chemiker» in cui snocciola le proprie benemerenze accademiche e la convinzione – nella morale quasi al calar del sipario – di essere «un uomo totale, il barbiere del futuro» («Ich bin Gesamtmensch, bin Barbier der Nachwelt»).

 

Negletta in Italia e appartenente invece al lessico familiare tedesco, ma tutto sommato con lo spirito con cui si accoglie alla propria mensa un parente povero, l’opera di Cornelius ha potuto contare su un allestimento curatissimo a Coburg, il cui Landestheater è uno dei più belli di tutta la Germania. La dicotomia tra una Bagdad da farsa (pennellata nel primo atto) e un Oriente sinuoso e narcotizzante (evocato in ampi squarci del secondo) viene risolta attraverso due tableaux di segno visivo quasi opposto – moderno il primo, favolistico l’altro – che rappresenta una bella prova di eclettismo per lo scenografo Tobias Hoheisel: la camera in cui giace il giovane Nureddin malato d’amore si tramuta in una stanza di ospedale, che offre il destro a gags ora grassocce, ora sinistre; mentre la lussuosa dimora del Cadì viene restituita attraverso un’iconografia cartolinesca, con tanto di francobolli e timbri postali.

 


Una scena corale dell'opera. Credits: Andrea Kremper

 

A sua volta, la regia del sudafricano Alessandro Talevi prende sul serio anche il Cornelius librettista, cogliendo il retrogusto angoscioso di Abdul Hassan quando enumera, con tiritere apparentemente buffonesche, l’interminabile elenco dei propri fratelli morti per le cause più disparate: le babbucce – sorta di simbolo del mondo arabo – di ciascuno di loro, che si materializzano tra le mani del protagonista come estratte da un cilindro della memoria, rappresentano una trovata surreale, ma di malinconia lancinante. E pure scelte più forzate, come quella di fare del venalissimo Cadì un ebreo anziché un musulmano, sembrano rispondere a una concezione “alta” della drammaturgia dell’opera: quasi a volervi cogliere echi di Nathan il saggio e ascendenze lessinghiane, in un messaggio di pacificazione tra religioni tutte sullo stesso piano.

 

La giovane Anna-Sophie Brüning, direttrice principale a Coburg, evita a sua volta una lettura troppo vivida e sgargiante, estranea alla sobrietà degli impasti sonori di Cornelius, per concentrarsi sulle squisitezze formali della partitura – la delicatezza liederistica nelle pagine a sfondo amoroso, certe riverberazioni quasi oppiacee dei momenti corali – senza però venir meno al giusto passo teatrale. Unico limite, forse, un volume orchestrale a tratti fin troppo alto: che offre più spiccato rilievo agli eccellenti fiati della Filarmonica di Coburg (a fagotto e oboe Cornelius riserva primi piani importanti), ma penalizza, in palcoscenico, voci non voluminosissime. O, almeno, non di pari volume in tutto l’arco della loro estensione.

 

È il caso, in primo luogo, del protagonista Michael Lion: che ha ogni nota dell’improbo ruolo, ma non la capacità di rendere ugualmente timbrate e percepibili anche quelle della fascia più profonda. Se lo spessore canoro è più da caratterista di gran classe che da autentico mattatore, la spericolata cadenza della serenata – omaggio di Cornelius al belcanto italiano e, al contempo, sua parodia – rivela però un ferrato vocalista; l’interprete pennella regola d’arte e senza gigionismi tutta la balordaggine, la mitomania e l’umor tetro del personaggio; e anche sul piano scenico è difficile trovare un cantante che rispecchi così bene la didascalia («sembra essere molto vecchio, è pallido e giallastro») con cui il libretto descrive Abdul Hassan.

 


Un momento della messinscena. Credits: Andrea Kremper

 

Thomas Volle accoppia la delicatezza dell’amoroso alla spigliatezza del commediante, supportandole con un bel vibrato tenorile – non invasivo, ma corposo – e sostenendo con fiati cospicui l’enorme lunghezza che, nel primo atto, grava sul personaggio di Nureddin. Julia Klein, alle prese con il ben più breve ruolo di Margiana, pennella con sapore e finezza il ritrattino dell’innamorata scaltra; mentre una parte come quella di Botsana (drammaturgicamente da caratterista, ma per impegno vocale in fondo la primadonna è lei) avrebbe meritato qualcosa di più dell’accattivante presenza scenica, affiancata però da un canto disordinato e disomogeneo, di Gabriela Künzler.

Devoto alla moschea o – come qui lo vuole il regista – in odor di sinagoga, Karsten Münster è un Cadì gabbato ma comunque astuto, con una sostanziosa vocalità da “secondo tenore” e non da tenore caratterista. Mentre il canto baritonale posatamente declamatorio di Falko Hönisch dona icasticità alla serena autorevolezza del Califfo: braccio del potere visto una volta tanto come benefico deus ex machina, che getta quasi un ponte verso il Don Fernando del Fidelio.

 



 

Der Barbier von Bagdad
Opera comica in due atti


cast cast & credits


Credits: Andrea Kremper



 
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