Si è conquistato una meritata
posizione nella sezione “Un certain regard” il bel film di Valeria Golino, ospite in maggio al Festival di Cannes edizione
2013.
Miele non è solo il titolo del debutto cinematografico dellattrice
(e ora regista) italiana ma è anche il “nome di servizio” della protagonista
della pellicola. Incarnata da una convincente Jasmine Trinca, Miele ha anche un nome di battesimo, Irene, e una
doppia vita.
Irene è una giovane donna
solitaria, risoluta e tenera al tempo stesso. Studia allUniversità di Padova,
dove spesso si reca per incontrare i suoi professori, e divide lappartamento
in cui vive con una ragazza cinese. Questo è ciò che racconta al suo amante
Stefano (Vinicio Marchioni), col
quale ha una relazione basata soprattutto sul sesso, e a suo padre – rimasto
vedovo –, che ogni tanto incontra per pranzare o per giocare a backgammon. In realtà Irene non
frequenta più lUniversità e la ragazza cinese fotografata con il telefonino è
solo unanonima turista fermata un giorno per strada.
Irene, infatti, è soprattutto
Miele, giacca di pelle nera, jeans e sguardo deciso: con due anni di medicina
alle spalle, per mestiere aiuta i malati terminali a porre fine alla loro
agonia. Non è chiaro per chi lavori la protagonista (forse un piccolo neo di
questo coraggioso film). La vediamo periodicamente incontrarsi e prendere
accordi con il suo collega Rocco (Libero
De Rienzo), partire alla volta del Messico per comprare il farmaco letale –
il Lamputal, barbiturico per cani illegale in Italia –, prestare i suoi servizi
di attento e discreto “angelo della morte” e quindi sfiancarsi in lunghe
nuotate e corse in bicicletta. È a contatto con lacqua e con il vento, infatti,
che Miele torna a essere Irene mentre tenta di riagganciarsi a una vita che
sente scorrere in sé solo quando il cuore le batte forte nel petto.
Ma un giorno accade qualcosa di
inaspettato: a richiedere il servizio di Miele è Carlo Grimaldi (un affascinante
Carlo Cecchi), ingegnere
settantenne, cinico, intransigente, colto e riservato, che pur godendo di buona
salute ha perso interesse per la vita. La ragazza non lo sa, pensa che si
tratti di un uomo molto malato, ma presto capirà che il suo caso è diverso
dagli altri finora trattati.
«Una malattia invisibile è un
capriccio?», chiede Grimaldi a Miele, che, sconvolta dopo aver scoperto le sue
intenzioni («Io non sono un sicario, aiuto i malati!», dice furente allamico
Rocco che le ha passato il contatto) mette a soqquadro la casa delluomo alla
ricerca della pozione letale che gli ha venduto qualche giorno prima. Da questo
incontro/scontro nascerà una relazione, un rapporto affettuoso fatto di
avvicinamenti e distacchi che faranno franare le convinzioni che fino a quel
momento avevano sorretto Irene nel suo essere Miele.
Il lungometraggio della Golino
indaga un argomento scomodo e attuale già affrontato lanno scorso da Marco Bellocchio in Bella addormentata e da Michael Haneke in Amour, senza alcuna presa di posizione etica, religiosa o politica.
Liberamente ispirato al romanzo A nome tuo di Mauro Covacich, Miele è
un film di contrasti e affinità, duro e delicato, cupo e luminoso, un
compenetrarsi di atmosfere e sentimenti che la regista riesce a trasmettere con
inquadrature mai banali. La cinepresa non pone al centro del proprio occhio i
personaggi, ma si muove alla ricerca dei loro gesti e dei loro sguardi. Si
pensi – per citare lesempio più emblematico – al primo piano di Miele, che,
mentre sta aiutando un giovane ragazzo paraplegico ad abbandonare una vita
oramai insopportabile, ci guarda improvvisamente con occhi disperati,
disarmati, che si velano di lacrime.
«Noi dobbiamo essere invisibili»,
spiega Irene a Grimaldi con il volto rigato dal mascara che cola, «non devono
pensare che dopo possiamo tornare a una vita normale. Dobbiamo stare attenti
alle parole che usiamo, a non adoperare verbi come “desiderare” e a non palare
mai al futuro». Ma questa volta la protagonista non riesce a seguire tutta la
procedura, distoglie lo sguardo attento e discreto con il quale era sempre
riuscita a sostenere il pesante fardello della morte. Qualcosa dentro di lei si
è incrinato e anche lo spettatore sarà chiamato in causa, non potrà più
limitarsi ad assistere agli eventi, ma dovrà guardarsi e interrogarsi.
Questopera prima dallo stile
molto personale, è prodotta da Riccardo
Scamarcio e Viola Prestieri e
sceneggiata, oltre che dalla stessa Golino, da Francesca Marciano e Valia
Santella. La musica non fa mai da sfondo, ma vive e palpita di fotogramma
in fotogramma: esce dalle radio, dai televisori, dalle cuffiette che
Miele/Irene ha sempre ben “incastonate” nelle orecchie o penzolanti al collo
(molto bella la sequenza in cui condivide i suoi auricolari con lingegnere) e
dagli stereo delle persone che aiuta a morire. E infatti proprio lei a
consigliare ai suoi “pazienti” e ai loro cari di scegliere le note che li
accompagneranno fino al momento del distacco.
Magnificamente silenziosi,
sospesi in una dimensione ovattata, sono invece i due rapidi flashback: appaiono e scompaiono, quasi
senza che lo spettatore se ne renda conto, e restituiscono le immagini di Irene
bambina mentre gioca sulla neve con la sua giovane mamma.
Una nota di merito va alla
fotografia attenta ai dettagli dellungherese Gergely Pohárnok: la pellicola riesce a catturare in maniera
indelebile lapertura repentina di un sorriso che rimane idealmente
impressionato sul nero dei titoli di coda.
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