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Voracità devastatrice della dittatura

di Gianni Poli
  La nonna
Data di pubblicazione su web 04/03/2013  

 

Le intenzioni dichiarate dai responsabili di questo incisivo e divertente spettacolo sono confermate dai risultati sulla scena. Riconoscendo nell’opera di Roberto Cossa (autore argentino di ascendenza italiana) la compresenza di realismo storico e metafora della contemporaneità, Giorgio Gallione annota: «Ho gestito il rapporto che c’è fra il tragico e il comico, senza andare alla ricerca di una loro mediazione stilistica o narrativa, ma lasciando che gli opposti convivano proprio nella loro contraddizione, sino alle estreme conseguenze». Così La nonna si impone quale vigorosa e pregnante immagine del potere folle e distruttore, incarnato nelle sue forme più aberranti e luttuose. Il caso del generale Videla nell’Argentina degli anni Millenovecentosettanta è rievocato nella sua spaventosa evidenza, se pure traslato a una situazione italiana nella quale si specchia per elementi meno drammatici, ma non meno inquietanti; per cui l’attualità del testo si verifica nelle risate frequenti e nella partecipazione dello spettatore e nel senso di progressivo svelamento della realtà abnorme che la situazione esilarante presuppone.

 

Il genere drammaturgico, definito propriamente grotesco criollo, può corrispondere a certe forme di Teatro dell’assurdo francese ed europeo. In particolare, nella commedia di Cossa si verifica lo svuotamento progressivo dello spazio scenico dai mobili e suppellettili, in analogia con la pièce di Ionesco Le nouveau locatarie, in cui al contrario i mobili si accumulano a saturazione. Nell’ambiente dell’emigrante, insediato o precario, è vivo il tema del lavoro e del denaro, che l’autore enfatizza. I suoi personaggi esprimono «maschere», più che ruoli, sebbene le stratificazioni sociali e psicologiche di ciascuno emergano piuttosto nettamente e conformino persino rapporti da dramma d’ambiente e di costume, riuscendo a conferire dimensioni a tutto tondo a figure tutt’altro che allegoriche, salvo quella della Nonna. L’attualizzazione sensibile deriva dalla nuova traduzione di Ernesto Franco che ammette allusioni (mai pedanti o didascaliche) alla nostra storia recente. Del resto la contemporaneità spiccava anche nella creazione italiana del 1987, diretta da Attilio Corsini, in cui il ruolo dell’orrenda matriarca era sostenuto dall’attore Nestor Garay, in funzione forse di una più direttamente riconoscibile connotazione dittatoriale.

 

Nell’allestimento di Giorgio Gallione – dove non si dà per scontata l’allegoria, ma la si svela progressivamente e quasi a suspense lungo i due tempi – i moventi più stravaganti e assurdi dell’azione, a partire dal mostruoso personaggio, appaiono iperrealistici nei dettagli visivi e surreali nell’illogica comportamentale, così applicati ai rapporti familiari dominati dalla figura totemica, simbolica e primitiva della Nonna, onnivora insaziabile.

 


Foto Bepi Caroli


L’ambientazione scenica è concepita da Guido Fiorato nell’unico grande vano adibito a cucina-tinello, piastrellato geometricamente e ingombro soprattutto di frigoriferi, contenenti le vettovaglie destinate alla fame della Nonna. I costumi d’epoca marcano i tipi con note coloristiche accese e accessori vistosi, eccessivi. Stivali rossi e rete da capelli (o fiore all’occhiello), ad esempio, per Chico, guappo siciliano recitato da Ugo Dighero, quasi tautologico nell’ottimismo impotente e nei capricciosi espedienti per la sopravvivenza. Un reliquario a collana segna zia Angela, zitella un po’ bigotta: sono alcuni distintivi, nella modestia e nel generico cattivo gusto degli altri.

 

La vicenda inizia a crisi già in corso e avanza per sequenze indirizzate alla rovina e suggellate dalla tragedia. Il regista organizza il gioco dei personaggi accordandolo al ritmo di un’urgenza crescente, commisurata al panico che li invade man mano e li disorienta. Usa il tango come catalizzatore musicale nei cambi, a vista e in penombra, delle scene. Così è scandito il crescendo di sgomento e disperazione che a tutti si propaga, specialmente dal secondo tempo. Esclusa la Nonna, una Simona Guarino dalla goffa tracotanza; esuberante, invadente e sfuggente, che terrorizza e condiziona l’intera famiglia con le sue ossessive richieste di cibo. Ella grufola e inghiotte, sbraita parole d’ordine come «Fame» e «Appetito» e sgrana stentorea litanie di vivande. È così selvaggiamente avida, da manifestare l’energia d’un elemento naturale fatalmente incontenibile. Un nemico che rende man mano impotenti  (e poi annienta) tutti i parenti, a partire da Carmelo (Enzo Paci) onesto laborioso immigrato siciliano che provvede alla moglie Maria e alla figlia Marta, alla zia Angela (Barbara Moselli) e al fratello Chico. Questi, pure nell’ignavia del suo carattere, si dimostra l’agente più importante nello scontro con la forza avversa. Rappresenta l’elemento a sua volta irrazionale e fantasioso e costituisce il polo alternativo negli scambi di gruppo. Vanta talenti di compositore di tango, ma poltrisce; rifugge da fatica e responsabilità. Virtuosistico parassita, escogita varie paradossali soluzioni per arginare e poi eliminare la malefica presenza della Nonna. Organizza le sue nozze con un amico commerciante, convincendolo con un’allettante promessa di eredità; propone di condurla a «passeggiare» sulla tangenziale per sfruttarla. Indi, ricorre all’avvelenamento. Frattanto, col crescere dell’indigenza, il mobilio è pignorato; la giovane, cagionevole Marta si prostituisce, coperta dalla pietà della madre e dall’onta del padre. Zia Angela muore accidentalmente per il veleno, al quale la Nonna resiste, infischiandosene anche dell’ictus che paralizza il promesso sposo e lo riduce a mendicare sulla carrozzella (un Mauro Pirovano dalle risibili velleità amatorie), della morte del figlio Carmelo e della nipote (Mariagrazia Pompei), silenziosa nel generoso sacrificio. Costretta ad abbandonare la casa, sola, resta Maria, scolpita in mestizia esemplare da Rosanna Naddeo. Infine Chico esegue al pianoforte un ultimo tango, funebre, e si impicca col cavo d’un lampadario. La grande stanza ormai vuota risuona di un macabro squallore, in cui è più lancinante la nostalgia per la piccola comunità dispersa. La stessa che poco prima, nel marasma, nel conflitto e nel bisogno era stata, a modo suo, felice.



La nonna
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