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Le deliranti memorie della signorina DuBois

di Lorenzo Galletti
  Un tram che si chiama desiderio
Data di pubblicazione su web 27/02/2013  
                                 

Nel dicembre del 1947, a Broadway, Elia Kazan portava in scena Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, con un giovanissimo Marlon Brando (Stanley Kowalsky) e Jessica Tandy (Blanche DuBois).

 

A poco più di un anno dalla prima rappresentazione a stelle e strisce, nel gennaio 1949, Luchino Visconti curava la regia dello stesso testo con grande successo, esibendo un Vittorio Gassman nel pieno delle forze nella parte di Stanley e una sempre più convincente Rina Morelli in quella di Blanche. In quell’occasione Giovanni Calendoli, recensore dello spettacolo per «la Repubblica», analizzava così l’opera di Williams: «In Un tram che si chiama desiderio annegano nel vasto oceano della follia le illusioni di Blanche Du Bois. … Tutti questi episodi, disegnati talvolta con acuta penetrazione psicologica, ma senza forza poetica, si susseguono con una cadenza ordinata, ma senza inquadrarsi in una architettura umana e in una struttura drammatica. Esiste l’intuizione felice del carattere di Blanche, ma gli astri – Stella, Stanley, i suoi amici – sono personaggi di cartapesta» («la Repubblica», 22 gennaio 1949).

 


Giuseppe Lanino (Mitch) e Laura Marinoni (Blanche).
Foto di Brunella Giolivo

 

Facendo leva sull’“isolamento” di Blanche, la pluripremiata messinscena di Antonio Latella lo conduce alle estreme conseguenze tramite un’operazione registica coerente, ma con risultati di gusto dubbio e quanto mai soggettivo.

 

Fin dall’ingresso del pubblico in sala, il sipario aperto sul palcoscenico completamente illuminato, dieci fari puntati negli occhi degli spettatori e la completa assenza di quinte denunciano la volontà del regista di non mascherare alcunché, tutt’altro. Secondo il disegno di Annelisa Zaccheria la prossemica è elementare e gli stessi oggetti d’arredamento in scena sono spogliati e ridotti a scheletri. L’idea dello svelamento è confermata all’inizio dello spettacolo dal lungo prologo di un uomo ingiacchettato, il medico, che in tono cronistico ci svela subito il finale, l’uscita di scena di Blanche, per poi recuperare il racconto del suo arrivo a New Orleans a bordo di un tram che si chiama desiderio. E mentre narra, i personaggi dietro di lui mimano le azioni descritte e dalla penombra si fanno piano piano più concreti fino a conquistare la parola, sostenuti e suggeriti dal quel “regista” dei ricordi.

 

Poiché Blanche è il perno su cui gira la giostra della vicenda, a cui Williams incardina l’intero plot e da cui dipendono le storie degli altri personaggi almeno per tutto il tempo in cui lei occupa la casa e le vite di Stella e Stanley, allora è legittimo anche trasferire i fatti nella sua mente: la storia le persone i fatti diventano ricordi dell’esplosione di pazzia che l’ha colpita, rimangono il rumore di fondo della sua psicosi.

 

Condividendo in certo senso l’analisi di Calendoli, Latella gioca con i «personaggi di cartapesta» che circondano anche fisicamente Blanche, li fa roteare intorno a lei come le stelle intorno alla testa di Willy il Coyote. Ferma per quasi tutto il tempo dello spettacolo accanto al tavolo su cui gira un grosso proiettore e su cui si giocano le carte (quelle del poker come quelle del «codice napoleonico» che tanto premono a Stanley), l’aristocratica impoverita Blanche guarda i suoi semplici “compagni” ballare intorno a lei una danza macabra sulle note dei Led Zeppelin, Janis Joplin e i System of a Down, li osserva dare il colpo di grazia alle sue illusioni smascherandone le debolezze e la distanza dal mondo.

 


Vinicio Marchioni (Stanley) e Elisabetta Valgoi (Stella).
Foto di Brunella Giolivo

  

Se poco a poco le scelte registiche rendono lo spettacolo irrimediabilmente tedioso – complici anche le due ore e quarantacinque di durata – l’esibizione di numeri da grande attore di cui è punteggiato ne risollevano tuttavia fortunatamente le sorti. Magistrale è la prova di Laura Marinoni, che nei panni di Blanche conferma la propria maturità e aggiunge una preziosa perla al suo album di successi. Costretta in un corpo irrigidito dalla condizione eterea, l’esibizione sopranile della sua pazzia non è mai stonata, nonostante costantemente condotta al limite dall’esaurimento nervoso. Vinicio Marchioni forgia uno Stanley di cui esalta forse troppo l’accento polacco, ma da cui emerge bene il conflitto tra la vitalità animalesca del personaggio e la sua definitiva inconsistenza fisica in quanto sola proiezione di una mente. Nei panni di Stella Elisabetta Valgoi appare forse per scelta registica troppo sfrontata, quasi doppio involgarito della sorella maggiore. In parte Giuseppe Lanino, il cui Mitch si modella per assecondare di volta in volta le espansioni dei caratteri dell’amico Stanley o di Blanche. Rosario Tedesco è buon narratore, attento osservatore e fondamentale coordinatore della vicenda, ma nella seconda parte il suo personaggio sembra dimenticato fino a perdere ogni consistenza, tanto che il suo ritorno alla parola nel finale ci lascia quasi spiazzati. Bravo Annibale Pavone per la fissità con cui disegna i suoi tre personaggi, niente più che fantasmi nei ricordi di Blanche.

 

In definitiva, se lo spettacolo vale è soprattutto per la prova degli attori, mentre la scelta registica risulta scarsamente originale nonostante il suo estremismo. Ma del resto non nasce tutti i giorni un Visconti buono a domare uno Williams.

 

                              

Un tram che si chiama desiderio
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