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Eleganze formali, sberleffi grotteschi

di Paolo Patrizi
  Il Naso
Data di pubblicazione su web 04/02/2013  

 

Il destino di molti grandi rivoluzionari è quello di morire conservatori: accadde a Gogol, che dopo aver scompaginato parametri e certezze della narrativa russa volle distruggere, convinto della peccaminosità del proprio genio letterario, la seconda parte delle Anime morte; ed è accaduto – tra gli altri – a Rossini, a Giuseppe Gioachino Belli, ad Alberto Sordi. Chissà se è per questo che, nel mettere in scena Il naso, Peter Stein ha scelto la via di un aureo accademismo visivo: preciso come un meccanismo a orologeria nell’impaginare i movimentatissimi tableaux che senza requie cadenzano l’opera, e impeccabile nelle citazioni iconografiche, ma tutt’altro che eversivo.

D’altronde, mettendo in musica la fulminante novella gogoliana, Šostakovič (altro innovatore poi rientrato nei ranghi della tradizione benpensante: ma nel suo caso c’era da fare i conti con le direttive estetiche del Partito…) si guardò dall’arpeggiare su tutta la tastiera del comico, scandagliato in ogni sua infinitesimale possibilità, come appunto aveva fatto Gogol: preferì la strada dell’estraniamento “formalista”, e tentare l’ossimoro di una musica fondamentalmente “seria” applicata alle più surreali situazioni grottesche. Sotto questo profilo Stein serve meglio Šostakovič che la fonte letteraria: e dunque, in questo, la sua è una regia molto musicale.

 


Un momento dell'opera. Credits: Luciano Romano

 

L’angoscia onirica di Gogol si addice poco al teatro lirico (la sapienza strumentale di Rimskij-Korsakov e la squisitezza formale di Caikovskij anestetizzarono l’appeal sulfureo delle Veglie alla fattoria di Dikanka), ed era forse inevitabile che per il giovane Šostakovič Il naso fosse, in primo luogo, un esercizio di stile. Se lo spettacolo di Stein – approdato a Roma dopo il debutto a Zurigo – ha un limite, è proprio questo: essersi fermato a quel “in primo luogo”, senza scandagliare gli altri traguardi dell’opera. La realizzazione del grande regista tedesco e dei suoi collaudati collaboratori (Ferdinand Wögerbauer per le scene, Anna Maria Heinreich per i costumi, Joachim Bart per le luci e lo stuolo di mimi-danzatori coordinati dalla coreografa Lia Tsolaki) è di esaustiva sapienza teatrale, ma si esaurisce, appunto, nella dimensione dell’ottimo esercizio stilistico: futurismo, astrattismo e avanguardie russe, dalle casette sbilenche di Mejerchold alle turbanti geometrie di Malevič, vengono miscelati con eleganza e senza cerebralismi, restituendo il clima di un’epoca; c’è perfino – leggermente postdatato – un riferimento a Tempi moderni, con l’incombente ingranaggio meccanico, proverbiale di quel film, che sembra stritolare il protagonista della novella di Gogol non meno dell’omino chapliniano. Latitano però, nella messinscena, l’affondo della vera deformazione caricaturale e il gusto per un’acidità disturbante, ma fertile: sono aspetti che Šostakovič non ignora.

 


Un momento dello spettacolo. Credits: Luciano Romano
 

Il direttore Alejo Pérez è un ottimo interprete del Novecento storico, ma per esprimersi al meglio avrebbe bisogno di orchestre in autentica empatia con questo repertorio: l’orchestra dell’Opera di Roma, grazie al sodalizio con Muti, è cresciuta in modo decisivo sotto il profilo della bellezza e ampiezza del suono, ma non ha quell’addestramento alle forzature timbriche e alla spigolosità melodica necessarie per uno Šostakovič davvero idiomatico. Il risultato è una lettura musicale notevole per puntualità e precisione, ma niente affatto scoppiettante, d’altronde in perfetta coerenza con il rigore formale della lettura registica. Il coro, ottimamente istruito da Roberto Gabbiani, risponde meglio dell’orchestra: il versante più riuscito dell’esecuzione è proprio l’inesausta poliritmia che caratterizza le parti corali, anche perché – contemporaneamente – la regia di Stein manovra benissimo quell’animazione caotica delle scene di massa che, di tali trattamenti poliritmici, è il naturale pendant visivo.

 


Credits: Luciano Romano
 

Il cast è mastodontico (la dramatis personae individua un’ottantina di personaggi, anche se molti cantanti si fanno carico di più ruoli e i comprimariati davvero minori sono concepiti per artisti del coro), ma gli interpreti che s’insinuano nella memoria sono pochi: e non è la spia d’una complessiva modestia della locandina, ma del fatto che il trattamento vocale di quest’opera – una linea di frontiera tra canto declamato e recitazione intonata – non consente significativi primi piani. Il baritono Paulo Szot è comunque un protagonista capace di trascolorare efficacemente dalla fatuità all’angoscia; il basso Alexander Teliga (il barbiere Ivan Jakovlevic: un Figaro ubriacone, umiliato e offeso) coniuga imponenza vocale e duttilità di fraseggio; il tenore Alexey Sulimov zoppica un po’ alle prese con una tessitura grottescamente acutissima; la veterana Elena Zilio – in confidenza con il repertorio russo da quando, una quarantina d’anni fa, era il più richiesto zarevic en travesti del Boris Godunov – tiene alta la bandiera italiana, pennellando la matrona pietroburghese Pelagia Podtočina con l’icasticità della caratterista di classe.

 

 

Il Naso
Opera in tre atti e un epilogo


cast cast & credits
 
trama trama


Elena Galitskaya e Paulo Szot. Credits: Luciano Romano


 
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