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Responsabilità e compromessi dell’arte col potere

di Gianni Poli
  La torre d’avorio
Data di pubblicazione su web 25/01/2013  

 

Nel 1946, gli Alleati istituiscono a Berlino procedimenti di istruttoria preliminare, convocando molti personaggi di spicco della cultura, compromessi col Reich, in vista del processo al Tribunale di Denazificazione. In un’aula militare compaiono i testimoni del caso Furtwängler, il celebre direttore d’orchestra accusato di connivenza col regime del Furher. Il compito di raccogliere le prove per un’incriminazione e un verdetto esemplari è affidato a un giudice americano, il Maggiore Arnold (Luca Zingaretti). Le udienze si aprono ascoltando il teste Helmuth Rode (Gianluigi Fogacci), violinista dell’orchestra nazionale. Poi si presenta un’intrusa, l’irruente Signora Sachs, vedova di un pianista ebreo, beneficiato a suo tempo dal grande direttore. Due personaggi di rilevante funzionalità drammaturgica. Rode sostiene l’avversione di Furtwängler per il regime e porta ad esempio il saluto canonico rifiutato a Hitler. L’ammirazione per il direttore era tale, ch’egli gli aveva sottratto la bacchetta usata nel concerto, episodio che rivelerà come dal feticismo veniale agli opportunismi più sostanziosi il passo sia breve. Gianluigi Fogacci lo interpreta con adesione e una certa ingenuità; con effusione nei momenti in cui difende la stimatissima guida. La donna (Elena Arvigo) vibra di riconoscenza, proietta sul benefattore il sentimento dell’amato, scomparso nei lager. Una confessione non richiesta, la sua, ma inserita con bell’effetto nel gioco dei pro e contro da subito evidente nel dramma.

 

Il ritmo procede sostenuto, nella direzione di Zingaretti – che si mostra a suo agio nella nuova funzione registica, com’è disinvolto ma tutt’altro che presuntuoso nella prestazione d’attore – coadiuvato da collaboratori giovani e valenti e affiancato dall’autorevole esperienza di Massimo De Francovich nel ruolo del musicista. Personaggio complesso, controverso e sfuggente, attorno al quale l’autore elabora il suo problematico dibattito (più che una trama poliziesca), equilibrandolo in avvincente conflitto e confronto di mentalità e ragioni ideologiche, in una insolubile miscela di opposizioni. Per Ronald Harwood, la verità resta racchiusa (e in parte irraggiungibile) nei limiti di ciascuno, sia di chi la analizza e la interpreta, sia di chi drammaticamente l’ha vissuta. Emerge così la difficoltà di discernere fra le effettive responsabilità di azioni private e pubbliche, l’ambiguità della funzione dell’arte nella società, quando la sua dignità venga a conflitto con le sue condizioni di esercizio, in situazioni di privilegio o di acquiescenza verso il potere. Qui Arnold affronta e magari perseguita l’indagato, essendo condizionato dall’impressione pregiudiziale di chi conosce gli effetti tragici del sistema che ha combattuto e sconfitto. Di fronte alla terribile evidenza dei mali recenti, Arnold, che si dichiara sprovveduto culturalmente (era assicuratore di professione), refrattario o addirittura ostile alla musica, punta pragmaticamente a dimostrare la corresponsabilità di chi ha goduto privilegi dal potere (anche se non risulta iscritto al partito) e non è espatriato come la maggioranza dei dissidenti. Sono i moventi primari, quali le paure, le comodità e persino i vizi, a guidare l’attenzione del giudice sulle prove a carico. Luca Zingaretti compone una figura disincantata, talvolta rozza, compiaciuto di ridurre alla presunzione d’evidenza i propri argomenti, frutto di spontanea e naturale reazione al comportamento dell’imputato. L’artista è sentito come nemico e suscita sdegno nell’inquisitore, quando è reticente nell’ammettere le celate ambizioni e le convenienze, certo meno nobili della decantata difesa dell’arte: «La mia vita intera – proclama Furtwängler – era consacrata alla musica perché, e questo è molto importante, credevo di potere, attraverso la musica, conservare qualcosa di pratico… La libertà, l’umanità e la giustizia». De Francovich esprime consapevolezza e coerenza ai valori interiorizzati; la sua sincerità corre sul discrimine fra certezze ideali e circostanze e i registri, ora pacati ora tesi, mostrano l’oltranza della sua legittima difesa, schiacciata comunque dal giudizio storico.

 


Un momento dello spettacolo diretto da Luca Zingaretti.
Foto di Bepi Caroli


L’interpretazione di Zingaretti gli risponde chiara e dura, sprezzante delle formalità (dà del tu ai testimoni e agli aiutanti), punta all’accusa inappellabile a priori, oltre ogni attenuante. Tagliente sarcasmo segna le incalzanti domande, silenzi provocatori inducono disagio nell’interlocutore; l’indignazione divampa nei momenti – verso il finale – di perorazione e contestazione più accesa all’esasperazione del musicista. Da regista, sa far emergere le inclinazioni dei due collaboratori, la segretaria e il tenente. Emmi Straube (Caterina Gramaglia), figlia di uno degli attentatori a Hitler, ama la musica ed è fedele alla cultura d’origine; è turbata soprattutto dai metodi di Arnold. Anche il tenente (Peppino Mazzotta) si sente urtato nelle esigenze garantiste dell’esercizio della giustizia, per cui la forma gli appare sostanziale. Due figure che sensibili al carisma dell’artista, un po’ lo compatiscono e ne enfatizzano le virtù. Contribuiscono ad alimentare il sentimento di superiorità che comporta per l’artista il rischio di chiusura nella «torre d’avorio». E se il testo ricorre alla musica (le Sinfonie di Beethoven e di Bruckner, esemplari nelle interpretazioni storiche di Furtwängler), il regista ne fa elemento co-protagonista introducendola nel buio d’apertura e riprendendola in successivi momenti; fino alla sommersione invadente che sigla il finale di una vicenda giudiziaria lasciata irrisolta. I costumi riportano l’ambientazione a una valida ricostruzione documentaria. La scena unica disloca due scrivanie, alcune sedie, un divano, un giradischi e una stufa, nell’anonimato di un’aula delle udienze. Opportuna riproposta di un’opera rappresentata nel 1995 con la regia di Harold Pinter e meno nota di quel Servo di scena che affermò la qualità di Ronald Harwood e a cui si potrà assistere durante la stagione in corso.



La torre d’avorio
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