Rappresentata una sola volta in Italia (ormai molti anni or sono, in forma di concerto, alla Filarmonica Romana), Undine resta lunico titolo di Albert Lortzing che abbia conosciuto un fugace passaggio sui nostri palcoscenici; e il silenzio che tuttora circonda da noi questo compositore può far supporre che – per iniziare gli italiani alla sua splendida musica e alla sua drammaturgia sempre lieve, mai banale – non abbia giovato proporre questopera dal soggetto radicato nel mondo delle favole germaniche: i suoi piccoli capolavori comico-borghesi (Zar und Zimmermann, Der Wildschütz, Der Waffenschmied) avrebbero ottenuto, forse, presa migliore.
Sta di fatto che Undine ha tutti i crismi del lavoro dimportanza storica: perché il soggetto deriva da una novella di Friedrich de la Motte-Fouqué celeberrima in Germania; perché la vicenda era già stata messa in musica da Hoffmann, e anzi questa sua prima Undine, del 1816, segnerà retrospettivamente la data di nascita dellopera romantica tedesca; perché sul tema dellondina destinata a vivere finché si perpetuerà lelemento acquatico, e tuttavia capace di ottenere unanima solo unendosi a una creatura umana, si sono cimentati Goethe e Grillparzer, Mendelssohn e Beethoven (questultimo fermandosi allo stadio di progetto), perfino il nostro Catalani; e perché la rielaborazione di Lortzing, arrivata quasi trentanni dopo la versione hoffmanniana, è una commistione irripetibile di favola gotica e commedia di caratteri, racconto stürmisch e stemperamenti Biedermeier.
La qualifica di romantische Zauberoper (opera romantico-fiabesca) è sintomatica della doppia anima del lavoro, che non a caso pone in dialettica esseri umani e spiriti anfibi, provenienti da fiabeschi mondi lacustri ma aspiranti alla normalità terrestre: una giustapposizione drammaturgica che già nella sinfonia approda a unideale reductio ad unum, quando il tema iniziale (esplicitamente romantico) e quello successivo (più rarefatto e incantato) trovano il loro punto di fusione musicale. E a mischiare ulteriormente le carte, ma pure a confermare il talento da prestigiatore operistico di Lortzing, si aggiunge, allalzarsi del sipario, il terzo e ancor più decisivo aspetto: quel versante umoristico, graffiante senza rinunciare alla bonarietà, che resta la cifra più caratteristica del compositore e qui affidata non tanto ai due ruoli comici – lo scudiero querimonioso e il cantiniere beone – quanto al personaggio teoricamente più “alto” della vicenda. Kühleborn, sovrannaturale signore delle acque, è depositario della melodia più plastica, morbida e cullante dellopera (la magnifica O kehr zurück è una pagina familiare nei paesi tedeschi), ma anche detentore di momenti straordinariamente divertenti; e questa divinità caustica e cialtrona – non a caso Lortzing, rispetto alloriginale di Hoffmann, lo concepisce non per una vocalità di basso ieratico, ma per quella più quotidiana di baritono – appare oggi modernissima, oltre che lontana anni luce dagli dei antiumoristici del Walhalla wagneriano. Semmai aleggia una parentela, per quanto remota, con la simpatica mascalzonaggine degli dei omerici.
Bandita laulicità e acquerellate le tinte forti, è ancora la componente colloquiale dello Spiel a fare da collante tra favola, dramma e commedia: Undine resta infatti un Singspiel, ormai storicamente fuori tempo massimo, e a tratti potrebbe aleggiare limpressione che il connubio tra parti cantate e recitate qui funzioni con minor scioltezza rispetto al Lortzing comico. In questi casi lalchimia degli equilibri dipende soprattutto dallesecuzione: al Landestheater di Neustrelitz (il Meclemburgo può contare su varie realtà musicali importanti, a cominciare dallottima Neubrandenburger Philharmonie, e il festival estivo del Land è unottima alternativa a quello dei “cugini ricchi” dello Schleswig-Holstein) si è potuto contare su una lettura musicale rigorosa e una messinscena tanto spartana quanto evocativa. Luna e laltra, tuttavia, si polarizzano sul versante tenebroso e classicamente romantico della vicenda (larchetipo di Undine, più che lUndine di Lortzing), relegando ai margini quella dimensione domestica e sorridente che, per lautore di Zar und Zimmermann, non è verniciatura, ma esigenza strutturale.
Resta fermo, però, che Romely Pfund, Operndirektorin a Neustrelitz, è bacchetta precisa (infallibili gli attacchi), capace dun sano equilibrio tra tensione sonora e levigatezza di fondo, molto attenta alle esigenze del canto: anche a costo di staccare un tempo forse meno lento del dovuto in O kehr zurück per dare respiro al baritono, o di rendere più potabile per il tenore la sua micidiale aria sforbiciando lacutissima parte conclusiva. E sta di fatto che Wolfgang Lachnitt firma una regia essenziale, ben servita dalla scarna e rotante scatola scenica di Bernd Franke, ideale per passare dal mondo terrestre a quello acquatico e viceversa, oltre che esportabile con perfetta funzionalità in altri palcoscenici. Nellinsieme un allestimento atto più a stilizzare la favola che a darle realistica evidenza: magari a costo di qualche schematismo eccessivo (la protagonista che convola a nozze con le mani imprigionate da una catena, a segno del suo non risolversi né come ondina né come donna) e di qualche trovata poco congrua, almeno per lo spettatore italiano (il vecchio Padre Heilmann come un calco di Papa Wojtyla).
Le occasioni di sorriso sono rimesse – oltre che a certi siparietti fin troppo operettistici affidati al coro – alle fisicità irresistibili e al canto da autentici “commedianti vocali” del Veit di Andrés Felipe Orozco e dellHans di Ryszard Kalus: luno pavido e pettegolo, laltro alticcio e sanguigno, entrambi preterintenzionali deus ex machina. Il primo è assai più che un tenorino di rincalzo, il secondo un basso coi fiocchi sufficientemente duttile per farsi carico pure del ruolo di Padre Heilmann, sebbene qui figuri meno. Sono proprio loro i migliori in campo, anche se il quartetto principale non demerita. Astrid Marie Lazar pennella la cattiveria dellantagonista Bertalda con grinta vocale (magari a costo di qualche sbandamento demissione) e ironia attoriale (una maliarda tutta sopra le righe). Robert Merwald è un artista sicuro, anche se lappuntamento con O kehr zurück lo coglie in difetto di morbidezza e rotondità. E la coppia protagonista, formata da Alexander Geller – un tenore dallottimo “legato” – e Yvonne Friedli, rivela due saldi vocalisti e sensibili fraseggiatori.
Quello tra Hugo e Undine, daltronde, è lamoroso incontro (o scontro) non solo tra un essere umano e una creatura dacqua, ma pure – ed è unulteriore estrinsecazione della natura anfibia di questopera – tra canto “alla tedesca” e canto “allitaliana”: per lei un monologo dove recitativo e arioso si confondono sotto il segno della durchkomponierte Form, per lui unaria pluripartita in stile italiano (anche se qui il taglio dellultima parte non ne lascia scoprire sino in fondo la sintassi). Con scelta impeccabile, Lortzing preferì la vocalità italiana per il canto umano. E volle che le voci della natura cantassero tedesco.
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