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Non solo Disney

di Elisa Uffreduzzi
  Moonrise Kingdom
Data di pubblicazione su web 13/12/2012  

Un’isola non meglio precisata a largo delle coste del New England. È l’estate del 1965, quando lo scout Sam Shakusky (Jared Gilman) e Suzy Bishop (Kara Hayward), due adolescenti introversi ed emotivamente disturbati – almeno questo è quello che gli altri pensano di loro – mettono in atto una fuga, programmata e messa a punto attraverso il fitto scambio di lettere durato tutto un anno e mostrato da un lungo flashback. La loro evasione porterà lo scompiglio nella piccola comunità locale, la stessa che, dopo aver conosciuto un po’ meglio i due protagonisti, farà di tutto pur di aiutarli.

 


 



 

 

In realtà girato nel Rhode Island, Moonrise Kingdom dimostra come la stucchevole ricetta disneyana non sia l’unica possibile per la fiaba. Caratterizzato da una peculiare atmosfera vintage, della quale è responsabile l’accurato lavoro di ricostruzione di scenografo (Adam Stockhausen), costumista (Kasia Walicka-Maimone), direttore della fotografia (Robert D. Yeoman) e tecnico del montaggio (Andrew Weisblum), pur presentando tutti gli elementi ascrivibili al modello dell’apologo edificante (dove la lectio è destinata agli adulti), il film ne forza i limiti, arricchendo le varie parti di sfumature psicologiche che fanno dei personaggi qualcosa di più che semplici stereotipi. Del resto il regista, Wes Anderson, aveva già dato prova di essere a suo agio nelle atmosfere retró (vedi I Tenenbaum, 2001). Girato in modo da sottolineare continuamente la presenza della macchina da presa e facendo di questa visibilità registica un punto di forza, Moonrise Kingdom, oltre ad abiti e oggetti di scena, degli anni Sessanta recupera anche certi stilemi cinematografici (come lo split screen, l’inconfondibile spettro cromatico del Technicolor, l’estetica del formato ridotto, ecc.). La scena “di ambientazione” che all’inizio del film “esplora” lo spazio della casa dei Bishop è in questo senso emblematica dello stile registico “evidente” del film: un carrello rigido e composito ci mostra le varie stanze scorrendo dall’una all’altra orizzontalmente, così da trasmettere la sensazione che si tratti di una sezione verticale dell’edificio, come in una casa di bambole (in effetti gli interni dell’abitazione sono stati ricostruiti in un teatro di posa). Scritta a quattro mani da Anderson e Roman Coppola, la sceneggiatura opta per una forma dialogica stilizzata e minimalista al pari dell’aspetto visivo del film, riuscendo ad ottenere un singolare risultato, straniante ed emotivamente coinvolgente al tempo stesso. È in questo mood recitativo caratteristico che attori alle prime armi come i protagonisti possono muoversi efficacemente sullo stesso piano di professionisti di fama come Bruce Willis, Edward Norton, Harvey Keitel, Frances McDormand, Tilda Swinton e gli attori-feticcio di Anderson, Bill Murray e Jason Schwartzman. Laddove gli interpreti più noti vengono privati della loro aura divistica e del background di ruoli che li qualifica (si pensi a Willis come caso emblematico), i più inesperti sono guidati da una ben precisa linea recitativa, a suo modo manierata e tuttavia naturalistica. Un discorso a parte riguarda il narratore in campo interpretato da Bob Balaban, che con il tono – e il nozionismo – di un documentarista, spiega le caratteristiche del territorio, rimanendo al di fuori e dentro la narrazione, finché in una delle ultime sequenze oltrepassa del tutto la soglia del racconto, dialogando direttamente con i personaggi.

Sempre sul confine del film drammatico e larmoyant, il racconto si sottrae alla tragedia stemperando sistematicamente i momenti di tensione con un escamotage tipico dei cartoni animati, dove, per non turbare i più piccoli, Wile E. Coyote muore e risorge come l’araba fenice. Del resto l’autore attinge chiaramente al mondo dei cartoon e del fumetto: segno, questo, del forte legame con la pratica dello storyboard in pre-produzione (si pensi all’inquadratura del finale in cui il comandante Sharp e i ragazzi restano appesi a una fune che pende dal tetto della chiesa, in un esasperato effetto silhouette, che ne disegna le nere sagome come fossero di cartone).

 


 



 

 

Sempre molto attento all’aspetto musicale dei suoi film, Anderson non si smentisce neanche stavolta, proponendo un pot-pourri sonoro in cui, accanto ai brani di Benjamin Britten – quelli nel giradischi che ascoltano Suzy e i suoi fratelli –, risuonano le musiche appositamente composte da Alexandre Desplat (per Anderson già autore delle musiche di Fantastic Mr. Fox, 2009), che nei titoli di coda, in una trovata ruffiana quanto riuscita, vengono commentate dalla voce over imitando gli “ascolti guidati” del giradischi. Su una colonna sonora prevalentemente orchestrale, spicca la canzone di Françoise Hardy al ritmo della quale ballano Sam e Suzy, sulla spiaggia dal prosaico nome Miglio 3.25 di Tidal Inlet. Ci penseranno loro a ribattezzarla, dandogli un nome più adatto a una favola che si rispetti: una dissolvenza incrociata svela un’inquadratura aerea della spiaggia che affiora dal dipinto di Sam ed ecco che, da bravi scout come lui, anche noi siamo arrivati a Moonrise Kingdom - e senza Mickey Mouse.





Moonrise Kingdom
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