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Le Indie di laggiù

di Giovanni Fornaro
  Dall'altra parte della terra
Data di pubblicazione su web 04/12/2012  

Uno spettacolo di intensa e partecipata originalità si è tenuto dal 30 novembre scorso, in prima nazionale, presso il teatro comunale di Massafra, a cura del Teatro Le Forche e con la regia di Giancarlo Luce. Il titolo ne stabilisce subito i connotati culturali: Dall’altra parte della terra. Si parla, quindi, di un 'altrove', di un luogo geograficamente lontano da noi, come era l’Argentina degli emigranti italiani tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. L’autrice del testo, Francesca Argentiero (qui anche mirabile attrice), si è ispirata alle ricerche effettuate da Paola Cecchini e confluite in un bel volume in due tomi, pubblicato a cura dell’amministrazione regionale delle Marche, intitolato Terra promessa il sogno argentino (2006), nonché al romanzo di Laura Pariani Quando Dio ballava il tango (2002).

Quindi: viaggio, emigrazione, dolore, nostalgia, lontananza, tango. Una sequenza forzata, per i milioni di italiani che si riversarono verso lo stato sudamericano in cerca di terra, di lavoro e di fortuna, spesso trovando solo uno di questi elementi, e continuando a sognare gli altri. Le voci degli italiani d’argentina (Fossati docet) ci ritornano, nelle interviste raccolte da Paola Cecchini, come una fonte viva e presente di forza primigenia delle nostre genti, che l’Italia ha invece obliato, ignorando quanto l’appartenenza al nostro paese, per quella comunità, costituisca una costruzione culturale e sociale a forte valenza identitaria. E non si tratta, beninteso, di una Storia delle classi dirigenti che laggiù hanno investito vita e risparmi, ma di una narrazione, soprattutto basata su testimonianze orali, degli ultimi, dei dimenticati. Derelitti per classe, censo, condizione sociale, status di genere, età. Ad Argentiero, di questo coacervo molto articolato interessa, in primis (ma paradigmaticamente), la condizione delle donne: quelle partite per seguire i loro mariti in una terra 'senza orizzonti', cioè priva di montagne e di confini, e quelle rimaste a casa, in Italia, ad aspettare un indefinito giorno del ritorno che, spesso, non si sostanziava mai, ad affrontare la solitudine e il procrastinare della loro dimensione sessuale e affettiva, a svolgere i lavori duri, 'da maschi', senza battere ciglio, per il bene dei figli e della famiglia, ma soffrendo come cani. Nelle lettere ai loro uomini, tutto va bene e la vita prosegue tranquilla: consapevolezza dell’inutilità di far emergere, almeno in quel modo, tutto il dolore e la rabbia della loro condizione.


Foto G. Fornaro
Foto G. Fornaro

A quelle donne, ombre perse in un mondo aspro, Francesca Argentiero da voce attraverso una pièce dalla finissima scrittura, la cui struttura presenta ritratti di alcune figure-tipo: la dolente nonna Venturina che vive, tra le altre, la difficoltà del lavoro nei campi e del freddo dell’inverno padano; la bracciante meridionale, Teresa, meno consapevole della prima, legata a una ritualità magica che solo apparentemente la consola di un legame distante, che diviene sempre più flebile, come la sua Italia, già lontana dal punto di vista geografico; Anna, bella, tradita e abbandonata.

Argentiero recita, soffre, ma anche canta (e meravigliosamente) alcuni brani, anche appartenenti alla tradizione, soprattutto quelle di una delle anime d’Argentina, che è il tango. La più famosa, forse, è Volver.

Le parole e le voci riportate in vita sono quelle originali, che la ricercatrice marchigiana ha registrato e trascritto nelle sue pubblicazioni, e l’attrice Argentiero, sola su una seggiola, le fa proprie con una con-passione che spesso diviene commozione personale. Sola, ma con un' 'altra' sè: un alter ego (e qui sta la grande idea narrativa e drammaturgica dello spettacolo) che, al contrario dell’attrice (vestita di nero), indossa un angelico abito bianco e rappresenta il nucleo primigenio, puro, quindi fanciullesco del personaggio femminile interpretato di volta in volta dall’attrice. Il ruolo è svolto da Giuditta Giovinazzi, bravissima violoncellista (e anche percussionista e rumorista) che è riuscita a mettersi in gioco nel difficile doppio ruolo di accompagnatrice sonora e di interprete dell’inconscio, capricciosa ma affettiva, il tutto in una scena scarna, a cura di Maria Putignano, che prevede solo una grossa cassa di legno pronta per un lungo viaggio in mare e una vecchia valigia di cartone.

Bella la regia di Giancarlo Luce, perché costruita per sottrazione, non alimentando il dolore espresso sul palco ma lasciandolo crescere e sedimentare nell’animo del pubblico presente, attivando anche in questo caso una compassione che diventa, qui, grande passione civile.

La serata di apertura è stata impreziosita dalla presenza della studiosa Paola Cecchini, la quale ci ha testimoniato, dopo la rappresentazione, la grande emozione di ascoltare le parole dei suoi intervistati in una sensibile e sentita sintesi artistica.






















 
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