Ultimamente sembra essere diventato di moda recuperare opere magne della letteratura mondiale, rielaborarle o meno e ridarle in pasto al pubblico di massa rivestite di nuovo appeal. Lo ha fatto, tanto per fare un esempio, Alessandro Baricco qualche anno fa con lIliade, sottoponendo a una robusta cura dimagrante il poema omerico per eccellenza, fino a ricavarne poco più di un centinaio di paginette facili facili. Lo ha fatto (testo alla mano) Roberto Benigni con la Commedia dantesca, sdoganando le cantiche del Sommo Poeta ai palati promiscui degli spettatori di piazza o a quelli delle indolenzite massaie incollate agli schermi di mamma Rai.
Niente di male, per carità, anzi. Siamo contro certi intellettuali (o presunti tali) che per paura di non si sa bene quali contaminazioni vorrebbero blindare patrimoni dellumanità in una frigida esclusività settaria. Siamo insomma col regista Marco Baliani, autore di questa trasposizione dellOrlando Furioso, quando a fine pièce, per bocca del suo personaggio-narratore, esorta il pubblico incuriosito a leggere loriginale: ché la sua è solo una riduzione del più famoso poema ariostesco, mentre il capolavoro vero giace altrove, magari scordato sotto un banco di liceo. Se un «libero adattamento» serve anche a questo, ben venga.
Però operazioni di questo tipo comportano dei rischi. Il rischio della banalizzazione, ad esempio, linguistica e concettuale. Ma lo spettacolo del duo Baliani–Accorsi (regista-adattatore luno, attore protagonista laltro) riesce a superare la prova, sia pure con qualche riserva.
Furioso Orlando di scena al teatro della Pergola (Foto Pino Le Pera)
Dimentichiamoci la storica messinscena ronconiana nella chiesa di San Nicolò a Spoleto di fine anni Sessanta. Quelle scene simultanee, quelle piattaforme mobili lasciano ora il posto al palcoscenico minimalista di Bruno Buonincontri, costruito artigianalmente con tre coppie di quinte laterali e un fondale a scacchi quasi monocromi ridisegnati dalle luci di Luca Barbati, pezze/pezzi di un tempo sbiadito nella memoria ma ancora vivo e da vivere. Al posto della moltitudine di comparse cè un solo attore, Stefano Accorsi, e il suo monologo, spezzato ad arte in soccorso dellattenzione dalle incursioni della musicista-cantante-attrice francese Nina Savary, presenza fissa in scena di poche ma efficaci parole. Anziché le storie cè ununica storia, quella di Orlando innamorato non corrisposto di Angelica, con gli intermezzi digressivi (godibilissimi) del paladino Ruggero e le sue piccanti avventure da inguaribile farfallone dongiovannesco.
Il palcoscenico è abitato dalle mute presenze di bislacchi aggeggi da rumorista, di foggia vagamente leonardesca, azionati alloccorrenza da Nina Savary, che ora fa scrosciare il mare con un setaccio contenente pietruzze, ora evoca lo schiamazzo della battaglia facendo scorrere una specie di bobina assicurata a un supporto di legno. Tutto è costruito esibito evocato in scena. La musica rigorosamente “diegetica”, con la solita Savary (talento cristallino) che suona a tutto campo, siano le corde di una chitarra o i tasti di un pianoforte o le tavolette di uno xilofono; e che canta, intonando gravi note di sue composizioni o pezzi altrui (cè perfino un accenno del Se tu mami di Pergolesi alias Parisotti). Il narrato è tutto affidato alla voce e al corpo di Accorsi, il quale racconta e insieme interpreta le vicende ariostesche, assumendo sulle sue spalle quasi lintero peso dellora e mezza di messinscena.
Stefano Accorsi e Nina Savary in un momento dello spettacolo
(Foto Pino Le Pera)
Lo spettacolo, in questo senso, funziona. Lattore bolognese, allinizio un po freddo (ma nelle repliche è andato meglio, ci dicono), è via via bravo nelleseguire i movimenti prescritti da una regia intelligente (esilarante la scena in cui descrive da radiocronista sportivo e al contempo mima le azioni del duello che vede la morte di Brandimarte), concedendosi qualche virata da grandattore un po troppo di maniera (ma il pubblico gradisce, applaudendolo a scena aperta). La Savary, a suo agio per tutta la messinscena nelle sue molteplici funzioni, riesce a fare del suo marcato accento straniero un punto di forza anziché un difetto, scandendo con efficacia le freddure con cui interrompe di quando in quando il corso della narrazione cavalleresca, aprendovi pause di ironica riflessione («Possibile che nei poemi le fanciulle rimangono sempre ignude, e un giovanetto no?») o innescando stranianti cortocircuiti metalinguistici («Attento, stai sbagliando canzone!»).
Un momento dello spettacolo firmato da Marco Baliani
(Foto Pino Le Pera)
Se dal nulla la magia spesso si accende in palcoscenico, è merito anche delladattamento di Baliani, che rimaneggia le ottave dellAriosto mischiandole talora a versi di Omero, Dante, Shakespeare. Ma nel fluido tessuto narrativo, improntato alla modernizzazione livellante e al citazionismo di vocazione pop, stanno anche i difetti di questa operazione. Alcune citazioni sono azzeccate (efficace levocazione del fazzoletto ricamato di Ofelia, che dà vita a un godibile siparietto metateatrale), altre decisamente meno (limmancabile selva oscura dantesca; lonnipresente materia dei sogni della Tempesta, usurata perfino in pubblicità). Alcune riflessioni su temi di ieri e di oggi sono banali, o banalmente esplicate: la stigmatizzazione della guerra (i morti ammazzati sono sempre morti ammazzati, la guerra la fanno i fanti e non i governanti); il femminismo “militante” incarnato dalla Savary in favore di Bradamante (che in un primo momento diverte, poi alla lunga stanca quando si scopre ideologico).
Infine, i versi. Il lavoro di Baliani, privilegiando il suono “facile” della rima baciata, rielabora le rime dellAriosto annientando gli endecasillabi originali, o compattando versi nuovi e originali in un amalgama che non ha soluzione di continuità. E siccome senza percezione dello “scarto” non può esserci critica, noi, magari per deformazione professionale, avremmo preferito più scarto. Con un risultato probabilmente meno accattivante, ma più incisivo, forse, sì.
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