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Un problema di distanza

di Elisa Uffreduzzi
  Razza bastarda
Data di pubblicazione su web 18/11/2012  

Razzabastarda (Italia 95’) segna l’esordio alla regia cinematografica di Alessandro Gassman, già apprezzato regista teatrale. Inserito nella sezione “Prospettive Italia” del Festival, il film è l’adattamento per il grande schermo della pièce teatrale Cuba and his Teddy Bear di Reinaldo Povod (1986), già portata a teatro dallo stesso Gassman con il titolo Roman e il suo Cucciolo, spettacolo con il quale ha vinto il premio UBU 2010. È la storia di Roman, immigrato rumeno arrivato in Italia trent’anni fa.

Mezzo zingaro, devoto alla madonna nera, spacciatore di cocaina e meccanico per copertura, sogna per il figlio Nicu (Giovanni Anzaldo) una vita migliore, onesta, lontana dai fantasmi della droga. Lo manda da un avvocato (Michele Placido) sperando così di poterlo avviare a un’onesta professione, ma tutte le sue speranze finiscono per annegare nell’eroina.

Sembra destino che le opere italiane presentate al Festival debbano mettere fotografia e soluzioni registiche brillanti e di buon impatto visivo al servizio di film che si accartocciano su se stessi: si era detto per E la chiamano estate ed il discorso torna tristemente ad essere vero per Razzabastarda.

La fotografia è in bianco e nero per buona parte del film, interrotta solo da un paio di sequenze oniriche a colori sui toni del rosso. Primissimi piani e dettagli, una macchina a mano a volte anche eccessivamente instabile (dove la mobilità è cioè enfatizzata), inquadrature fisse dello stesso scorcio urbano che scorrono in rapida successione mostrando così lo spostamento dell’ombra di un edificio sull’altro… tecnicamente Razzabastarda avrebbe le carte per essere un buon film, neanche banale. Ma perché non chiamare un attore rumeno a interpretare un personaggio rumeno (Roman)? Gassman col suo accento rumeno maccheronico è credibile come un italiano che parli con la “r” moscia in una fiction televisiva, con la scusa di voler imitare l’accento francese.

Già questo basterebbe a rendere poco credibile tutta l’operazione, che magari funzionava nel contesto teatrale, ma non regge al confronto ravvicinato con la macchina da presa. Ad aggravare un situazione già disastrosa intervengono la sceneggiatura (di Alessandro Gassman e Vittorio Moroni), responsabile delle improbabili sgrammaticature da simil-immigrato di Roman/Gassman; il figlio che di rumeno non ha neanche l’aspetto e infine “Talebano”, che nella recitazione composta di Sergio Meogrossi ha troppo del filosofo e troppo poco del tossico. 

L’unico connubio riuscito tra ruolo e interpretazione è quello di Geco, nei panni del quale Manrico Gammarota ci strappa qualche sorriso. Strano ma vero, dal cinema muto a oggi, passa il tempo, ma per chi viene dal teatro il problema rimane sempre lo stesso: riconoscere che la distanza della macchina da presa è un test impietoso e per superarlo, bisogna saper fare delle rinunce. In questo caso quella ad essere il protagonista e rimanere ancorato al contesto italo-romano.

La proiezione del film di Gassman è stata seguita al Festival da Ciro, il cortometraggio di Sergio Panariello che racconta un episodio di vita dell’omonimo protagonista. La sceneggiatura, nata da un’idea di Davide Zazzaro e Gaetano Di Vaio è il frutto di un lavoro di gruppo, quello dei ragazzi del laboratorio di scrittura creativa diretto dalla sceneggiatrice Anna Coluccino con la collaborazione di Guido Lombardi e dello stesso Gaetano Di Vaio. Iniziato nel 2009-2010 al Centro Territoriale Mammut di Scampia, il progetto è approdato alla stesura finale della storia di Ciro, un ragazzo di quattordici anni: la dura vita a Scampia, la scoperta dei veri valori della vita (l’amore, l’amicizia) e dei falsi miti della malavita, attraverso un percorso di rapida e drammatica crescita, fino al duplice finale, prima onirico, poi no, prima autoconclusivo, poi aperto. Un saggio breve ma grazioso.





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