Se allestero lantica grande forma operistica continua a godere di buona salute (basta un lavoro come Solaris di Glanert, in prima mondiale lestate scorsa a Bregenz, per essere ottimisti sul futuro del teatro lirico), uno sguardo ai giovani compositori italiani – e la Biennale Musica di questanno può essere unottima cartina di tornasole – può invece instillare il dubbio che, da noi, si debba ormai estendere al melodramma la definizione di cinema data da Flaiano nel postumo Nuove lettere damore al cinema: una forma darte capace di coinvolgere i suoi contemporanei e le generazioni seguenti, ma che sulla distanza diventa mero documento. Le nuove leve musicali del “Paese del Melodramma” preferiscono incanalarsi verso un teatro musicale minimalista, corto per respiro non meno che per durata, certo dettato pure dai magri budget oggi a disposizione: e tuttavia è difficile non intravedere anche un deficit dispirazione in certi organici strumentali spolpati fino allo scheletro, in testi afasici che sarebbe impossibile definire libretti, nella perenne indole parodistico-mimetica in luogo di unautentica elaborazione drammaturgica.
Così, più che “opere da camera”, i due lavori presentati alla Biennale veneziana di questanno, frutto di compositori appartenenti alla generazione dei trentenni (Francesca Verunelli, classe 1979, e Giovanni Bertelli, classe 1980), potrebbero semmai ispirare alla definizione di esercizio di stile: la mezzora di Serial Sevens appare interminabile nella sua evanescente ripetitività, i quarantacinque minuti di AMGD non annoiano ma lasciano lineludibile perplessità, propria di ogni “musica aleatoria”, che il lavoro avrebbe potuto concludersi già dopo il primo quarto dora con analogo risultato estetico. Luno e laltro tornano però utile a ribadire due punti fermi del teatro musicale di oggi: un certo citazionismo compilativo e la sensibilità verso tematiche, almeno in senso lato, scientifiche.
L'ensemble tedesco Neue Vocalsolisten.
Foto: Martin Sigmund
La “serie di sette” cui fa riferimento il titolo della Verunelli riguarda un test medico della funzione mnemonica: sette malati danneggiati nella memoria (i bravissimi Neue Vocalsolisten di Stoccarda in camicione ospedaliero) offrono schegge di conversazione collazionate da autentici estratti clinici. La base musicale – due percussioni – è di un estenuato minimalismo, funzionale allastrattezza del materiale evocato; il discorso vocale si rifrange in un inseguirsi e perdersi tra le sette voci (due soprani, mezzosoprano, controtenore, tenore, baritono e basso) a mezza strada tra dialogo e soliloquio, cui il talento dei Neue Vocalisten riesce a imprimere una relativa tensione espressiva. Lincomunicabilità che attanaglia i sette malati sfocia, chissà se in via fortuita o intenzionale, in una pari incomunicabilità della partitura, ma lottimo lavoro della regista Kristiina Helin – una mise en espace con ampio ricorso ai video – conferisce sostanza teatrale a un lavoro che di teatralità è del tutto privo: i sette malati biancovestiti affacciati a una ringhiera come angioletti di unedicola sacra è unimmagine che resta nella memoria, mentre le proiezioni in bianco e nero del manichino da sarto (un ideale corpo senza testa che rimanda a certa lucida follia di Magritte) su cui prende forma una giacca da uomo è un bel contrappunto al progressivo deformarsi della memoria dei protagonisti.
Non cè invece bisogno di regia per il lavoro di Bertelli, una «pantomima per 5 cantati e 2 percussionisti» così dettagliata nelle didascalie che i Neue Vocalsolisten, strepitosi come attori quanto come musicisti, in scena fanno tutto da soli. Baritono e secondo soprano questa volta mancano allappello, ma il quintetto residuo formato da Sarah Maria Sun (soprano leggero in grado di toccare altezze stratosferiche nel canto e nellurlo), Daniel Gloger (controtenore che non disdegna gli affondi nel registro virile medio-acuto), Andreas Fischer (un basso di formidabili e grotteschi suoni gravi, risonanti, si direbbe, più di stomaco che di petto), dal mezzosoprano Truike van der Poel e dal tenore Martin Nagy (luna e laltro dalle emissioni ben spendibili anche nel tradizionale repertorio operistico) danno vita a un teatrino della crudeltà di notevole impatto scenico-vocale: una sorta di famiglia Adams con nonno in carrozzina, papà mafiosetto emigrante, mamma bigotta munita di rosario e figlioletta isterica (la camaleontica Sun truccata come Pippi Calzelunghe), più un personaggio esterno – non a caso affidato alla vocalità artificiale del controtenore – chiamato a terremotare quel microcosmo.
È una cornice gustosa, dove pure i due eclettici percussionisti si integrano nello spazio scenico, ma che, inevitabilmente, interagisce poco con un testo impossibile: AMGD (un titolo, spiega lautore, che potrebbe significare Aestetica More Geometrico Demonstrata come Ad Maiorem Gloriam Dei) esaspera le ambizioni scientifiche e le strutture geometriche di Serial Sevens, in un gioco intellettualistico – cinque tableaux dove si replicano altrettante volte la medesima catena di gesti – che, nelle intenzioni, vorrebbe essere lideale traduzione musicale di un processo statistico. Lo squilibrio tra lidea e la sua estrinsecazione in termini musico-teatrali è irrimediabile, e forse lo stesso Bertelli ne è consapevole: affidandosi a un mestiere notevole per un trentenne, ma pure rivelando unassenza di freschezza inventiva che lanagrafe dovrebbe invece imporgli, la partitura assume il sapore del pretesto per innescare un meccanismo di citazioni e varianti, in cui cè spazio per evocazioni gregoriane, suggestioni madrigalistiche e perfino una cadenza che, postmodernamente, strizza locchio alla Lucia di Lammermoor.
Il violinista Irvine Arditti. Foto: Astrid Karger
Tuttavia dalla Biennale di questanno emerge anche un messaggio “antico”: la centralità dellesecutore. Il millimetrico appiombo musicale unito a unautentica arte di “attori vocali” dei Neue Vocalsolisten – protagonisti il giorno dopo di un concerto che impaginava cinque brani in prima esecuzione assoluta o italiana – simpone al divenire della Storia più delle partiture di cui sono stati protagonisti; e pure linevitabile omaggio a John Cage nel centenario dalla nascita e ventennale dalla morte ha impressionato soprattutto per lintermediazione esecutiva. Proporre in sede concertistica unintegrale di studi (quelli per violino, nella fattispecie) è impresa azzardata, come sempre accade quando si tenta in pubblico un corpus non nato espressamente per lascolto: sarebbe incauto con gli studi di Chopin, farlo con un autore come Cage può sembrare addirittura una provocazione. Ma lo sforzo di Irvine Arditti di confrontarsi senza pause nel corpo a corpo con quellora e mezza di musica ha qualcosa di titanico che si trasmette, più delle note, allo spettatore. Il pubblico ama i cantanti, e gli strumentisti, che sanno farlo soffrire. E se Di Stefano o Pavarotti comunicarono alle platee un senso di solare, innata facilità, Arditti ricorda invece Corelli o Vickers: tenori che plasmavano con fatica la propria emissione e soffrivano quando interpretavano, facendo faticare e soffrire lascoltatore. Il quale, di questo, era loro sommamente grato.
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