Peccato che sia fuori concorso. Sì, perché le carte in regola per vincere, Disconnect le avrebbe senzaltro. E il regista Henry-Alex Rubin, anche. Quattro diverse linee narrative principali si intersecano creando una narrazione molto scorrevole, nonostante il complicato gioco di incastri. Cè il diciottenne che si guadagna da vivere offrendo “sesso on line” a pagamento, cè la giovane e ambiziosa giornalista a caccia di scoop, cè la coppia che ha da poco perso il proprio bambino e ancora ci sono due adolescenti “difficili”, alle prese con un sofferto rapporto con la propria famiglia e con il contesto sociale in cui vivono. Ciascuna di queste storie incontra almeno una delle altre, delineando così una struttura circolare e coerente, imperniata sul tema dei media e dello snaturato rapporto che la maggior parte di noi intrattiene con essi. Così invece di parlarci vis à vis, filtriamo il rapporto con laltro attraverso uno schermo, quello del computer, che ci depaupera in via definitiva della comunicazione, mentre pretenderebbe di offrircela.
Disconnect diviene in questo senso una sorta di controcanto a The social network (David Fincher, 2010). Ne emerge un quadro angosciante, sul rassicurante sfondo del traffico di una moderna città americana: chat e video chat on line; gioco dazzardo in rete (basta pagare con la carta di credito), fino ad arrivare ai grandi social network. Di volta in volta non si tratta in fin dei conti che di illusioni: del denaro, dellamore, dellamicizia. Rubin ci costringe a confrontarci con la triste realtà che la maggior parte dei media, oggi, ha perso la sua funzione principale – comunicare – sostituendola con lillusione della stessa. Oltre a una trama che ci riguarda tanto da vicino e che ha il pregio di essere gestita magnificamente, il film si segnala per lottimo cast dinterpreti e per la regia che coordina con saggezza la danza circolare di tutte queste vicende individuali, ricorrendo a raccordi sul gesto, raccordi sonori e semplici raccordi di “assonanza visiva” per così dire, come la macchina in cortile, che prima è al centro di una storia, poi di unaltra.
Molto indovinata anche la colonna sonora (musiche di Max Richter), composta di canzoni contemporanee, pezzi di elettronica e in misura minore brani più melodici. Essa è in grado di ricreare a livello sonoro quel contrasto ansiogeno tra unambientazione tutto sommato familiare e rassicurante e laberrazione che sinsinua in essa attraverso i media.
Pregevole infine il finale, sospeso perché – come ci hanno detto poco prima i protagonisti stessi – non ha più importanza cercare un colpevole, non cambierebbe le cose. Eppure per capirlo anche loro hanno dovuto aspettare di potersi guardare negli occhi, di disconnettersi, di litigare anche, per riconquistare la fiducia in sé e negli altri e dunque, come diretta conseguenza, la comunicazione.
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