Un mero riempitivo, questo diventa Shira agli occhi della sua famiglia e di se stessa, allorché la sorella Esther muore, lasciando vacante il suo posto di moglie e madre: il “vuoto da riempire” cui allude il titolo. Divisa tra cuore e ragione, tra lamor filiale e il desiderio di sposare un attraente coetaneo, Shira dovrà decidere se accontentarsi del ruolo della sostituta o pretendere quello della protagonista, per la sua vita.
Ambientato a Tel Aviv, Fill the void ha i toni di una fiaba senza tempo, perché intrisa di tradizioni antiche - quelle della cultura cassidica ortodossa – e di sentimenti senza scadenza. Proprio per questo nonostante una trama estremamente esile il film convince, facendo di una commedia sentimentale agrodolce un piccolo capolavoro. Nonostante i dialoghi asciutti e una divisione dei ruoli chiaramente definita, cè spazio per insinuare tra le maglie della favola una fine introspezione dei personaggi, lasciando solo intuire impercettibili sfumature dellanimo. Costituisce valido supporto di una sceneggiatura così rarefatta lottima interpretazione degli attori, sui cui volti – spesso in primissimo piano – insiste la regia, giocando fin troppo spesso con la messa a fuoco allinterno del quadro, caratterizzata da una sorta di perenne instabilità. Nonostante la camera si avvicini ai volti tanto da renderne palpabile la consistenza epidermica, laspetto visivo del film si direbbe “patinato”, per via di un certo gusto minimalista nella composizione delle inquadrature e grazie allonnipresente sfocatura, che ricorda il flou riservato alle grandi dive del passato, per appianare ogni imperfezione nel fuori fuoco.
La vicenda narrata esercita senzaltro sul pubblico occidentale tutto il fascino dellesotico, mostrando incantevoli feste e tradizioni religiose ferme nel tempo, in corrispondenza delle quali anche la colonna sonora si tinge di sacralità, grazie ai canti in sottofondo. Segno che anche un piccolo film senza effetti speciali e trame rocambolesche è in grado di sorprendere e incollare allo schermo gli spettatori. Semplicemente rendendoli partecipi delle vicende mostrate e facendo percepire loro con forza angosce e dolori dei protagonisti, guidando così il pubblico come lungo un percorso, in cui ad ogni minima variazione emotiva dei personaggi necessariamente ne corrisponde una equivalente in sala.
La regista Rama Burshtein ha già diretto numerosi film per la comunità ortodossa, ma con questo suo primo lungometraggio riesce nellardua impresa di avvicinare anche il pubblico internazionale a una cultura finora sconosciuta ai più.
Di fronte a riti religiosi misteriosi e a un codice morale inflessibile e coerente, non possiamo che rimanere attoniti, un po ammaliati e un po intimiditi, proprio come Shira nellultima traballante inquadratura del film, di fronte a Yochay.
|
|