Il ballo del qua, del qui ed ora,
raccoglie limpressionante talento di sette bambini in scena, dai 6 agli 11
anni. La loro espressività così vivida, e lesemplare pulizia del gesto,
elevano allennesima potenza il senso delleffimero teatrale. Se larte della
scena è infatti per eccellenza fuggevole e caduca, la giovanissima età di
questi interpreti rende impensabile lipotesi che i medesimi bambini, che
crescono tanto in fretta, possano tornare sulla scena nel medio-lungo periodo
simili a se stessi, come li abbiamo visti a Castiglioncello, in occasione del Festival
di Armunia. Per questo è utile fermarli “qua”, nel tempo della scrittura, per
riflettere sullesperienza del laboratorio e del palcoscenico per artisti così
giovani, per interrogarsi sullespressione corporea e le sue potenzialità
narrative e no, per stupirsi delle capacità tecniche e stilistiche dei “nativi
contemporanei”. Nessuno di loro, si suppone, ha avuto una formazione
coreografica di tipo classico. Non ne avrebbero avuto il tempo biologico.
Eppure i tre anni di laboratorio con Antonella Bertoni a Rovereto, isola felice
della creatività e dellattenzione alla cultura grazie alla Regione Trentino,
sono serviti a interiorizzare un linguaggio, che è quello della danza
contemporanea, senza passare dalle sue origini, dalle 5 posizioni, dallo
sguardo che deve seguire le mani e il movimento. Lo segue e basta, come se la
danza contemporanea fosse davvero la forma di espressione artistica più consona
ai bambini, che hanno imparato a dipingere col loro corpo come a leggere e
scrivere, con la precisione e la perizia dei maestri, come se già potessero
prescindere dai passaggi evolutivi del linguaggio.
Raccontano dolore, paura,
allegria, solitudine, senza una precisa, né voluta, intenzione narrativa.
Colpiscono i loro sguardi, dritti negli occhi del pubblico, la serietà e la
concentrazione, rotti allimprovviso dalle brusche pause che lo spettacolo
richiede: ruote capriole cerchi e urla sorridenti per spezzare la tensione, per
poi tornare a giocare sul serio, per ricordarci però che abbiamo di fronte dei
bambini, che cè un tempo per il lavoro e un tempo per lo svago, che luno e
laltro si nutrono reciprocamente. Bambini che lo raccontano ad adulti, perché
per loro è questo spettacolo: «La Compagnia Abbondanza Bertoni - si legge sulle
note di sala - non prevede un pubblico di bambini». Un decisivo e sorprendente
capovolgimento, in unepoca di esperienze ricchissime di teatro per ragazzi,
dove sono sempre i grandi a mettersi in evidenza. Nel corso della stessa
serata, programmata per il Festival Inequilibrio, abbiamo visto bambine
comparire nel bosco vestite da fatine, come emanazioni fatue della mente di Virgilio
Sieni. Abbiamo ascoltato le atroci storie raccontate da Leonardo Capuano, tra
il confessionale di legno e un tulle bianco che lo avvolgeva sudato come una
soffocante zanzariera: bambini vittime di colpe altrui, o semplicemente vittime
senza requie. “I B A M B I N I” dei due danzatori cresciuti alla scuola di Carolyn
Carlson, si rimpossessano della scena a guardare “i grandi” come fossero loro
pari. Vi si potrebbe leggere una sfida, che solo un senso di colpa adulto,
recondito e fuorviante, potrebbe giustificare. O vi si può osservare la voglia
di dimostrare che l'impegno pur giocoso del laboratorio li ha fatti crescere
più in fretta, con una consapevolezza più adulta della capacità di
comunicazione attraverso il corpo, nell'ascoltare e nel dire, senza astrazioni,
senza rinunciare alla loro genuina bellezza.
La preoccupazione istintiva che
questi giovani danzatori siano stati in qualche modo privati della loro
infanzia serpeggia nel pubblico, in odore di Olimpiadi londinesi, tra storie di
piccoli atleti cinesi allevati in palestra. Come se gli occhi davvero troppo tristi
di una bambina col copricapo bianco di lana, e fasciata di garze e occhiaie,
siano il sintomo inequivocabile di un dolore che le è stato trasmesso perché
lei lo assorbisse e lo restituisse sul palcoscenico. In realtà è solo una
straordinaria attrice, la vediamo giocare subito dopo con lo sguardo e il viso
completamente mutati, di nuovo infantile, magari meno incosciente. Coi
compagni, quattro bambini e tre bambine in tutto, anche loro fasciati di
costumi incompiuti, bianchi ma non troppo, torna ad abitare la scena disadorna
di una leggera patina estetizzante, eterea e calda, complici i suoni avvolgenti
dalle sonorità quasi animali. Tutti insieme disegnano traiettorie circolari o
diagonali che fanno ripensare alla prima Stoà cesenate, quando laffondo anagrafico
della ricerca teatrale era appena approdato agli adolescenti. Ai “solisti” che
si staccano dal gruppo spettano le divertenti smorfie in primo piano, oppure le
smanie esagitate dellisolamento, o ancora, tentennanti passeggiate sul corpo
degli altri. Solo una di loro si inerpicherà in una ineccepibile sequenza di
danza: sembrerebbe un freddo pezzo di bravura, se il corto circuito delletà
non inducesse a una profonda tenerezza. I bambini di ieri, di oggi e di domani,
come uno splendido spettacolo di Pina Baush cui pure questo lavoro idealmente
rimanda, sono a volte troppo seri, come se letà dellinnocenza non conoscesse
lironia. Ma la loro tensione alla condivisione e alla concentrazione, e al
contempo le note indisciplinate, sono poesia assoluta, che – parafrasando Paul
Valery e la sua definizione del pittore - non descrive «quello che si vede, ma
quello che si vedrà». Chissà come se ne ricorderanno a quarantanni.
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