Unopera rimasta fuori in repertorio, ma divenuta serbatoio per spunti e autoimprestiti dun capolavoro successivo, ha in sé qualcosa di bifasico. E in effetti Zaira – mai entrata nel cuore del pubblico nonostante i repêchage della Scotto e della Ricciarelli, ma riutilizzata in parte dallautore per I Capuleti e i Montecchi – appartiene a un Bellini “a due velocità”: reminiscenze rossiniane e nuove conquiste espressive, formalismo belcantistico e recitar cantando, illuminismo della fonte letteraria e romanticismo del suo adattamento librettistico. Il Bellini “gluckista” – intensamente disadorno e fedele più allestetica del canto spianato che a quella dellabbellimento – rappresenta meglio Zaira, che non a caso trova i momenti più alti nei brani dinsieme anziché nei primi piani vocali, ma pure i rossinismi di maniera, dove il contenuto e la forma di Rossini vengono volti in semplice colorito, hanno il loro peso nella partitura; e se il dramma di Voltaire perde, nel libretto di Felice Romani, i tratti di pièce philosophique con la sua polemica antireligiosa, lantiretoricità con cui Bellini plasma questa vicenda damore impossibile e la stilizzazione quasi archetipica con cui pennella i caratteri (lidea di “buon selvaggio”, cristiani e musulmani come emblemi più che personaggi…) mantengono qualcosa di preromantico.
Foto Laera
Chissà se la regista Rosetta Cucchi ha pensato a tutto questo nellideare una messinscena a due livelli, con un piano alto in cui si svolge fedelmente, con il calligrafismo delle regie più tradizionali, la vicenda raccontata da Romani e un piano basso che aggiorna la stessa storia alloggi: la protagonista è una turista occidentale sequestrata da un commando islamico mentre fotografa i paesaggi palestinesi, tra lei e Orosmane sinstaura un rapporto vittima-carnefice in stile Portiere di notte. Quali che fossero le intenzioni, i due piani dello spettacolo – al contrario dei due livelli drammaturgico-musicali dellopera – non entrano in dialettica, ma danno vita a realtà distinte e tuttaltro che complementari; linvasività di quanto si vede nella parte bassa deconcentra e, spesso, entra in collisione con quanto evocato dalla musica (unantimusicalità che tanto più dispiace essendo la Cucchi pure una pianista); e il finale con Orosmane che non si suicida sul cadavere della donna amata e uccisa, ma prende tra le braccia il corpo senza vita di Zaira come in una sorta di michelangiolesca Pietà islamica, evoca un messaggio transreligioso opposto alla morale del dramma di Voltaire, ma anche incongruo rispetto allequanime laicità con cui Bellini prende le distanze tanto dalla soldataglia del sultano quanto dai cavalieri cristiani.
La stilizzatissima scatola scenica ideata da Tiziano Santi imprime funzionalità e – per quel che è possibile – anche una certa scorrevolezza alla narrazione “parallela” ideata dalla regia, così come i costumi di Claudia Pernigotti rendono giustizia tanto allesotismo ottocentesco del piano superiore quanto alla cruda contemporaneità di quello inferiore: ma avere i solisti tutti in alto, lontani più del consueto dallorchestra, ha comportato varie sfasature, ulteriormente accentuate dal caldo torrido dellestate di Martina Franca. Penalizzati dal clima, i protagonisti mostravano ridotte resistenze di fiato, con inevitabile corollario di pause rubate e lievi scarti fuori tempo: forse un direttore più navigato del giovane Giacomo Sagripanti (molto chiaro negli attacchi, spesso dispersivo altrove) avrebbe garantito un appiombo migliore. Per il resto, la sua concertazione si è incanalata sui binari dun prevedibile rossinismo più che su quelli del Bellini “progressista”, capace di aggiornare i traguardi del Gluck riformato agli stilemi romantici.
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Tra un soprano spesso spalancato nel registro acuto (Saioa Hernandez) e un mezzosoprano intubatissimo nel registro grave (Anna Malavasi) il palcoscenico lasciava un po a desiderare, in termini di fonazione. La Hernandez ha comunque dato vita a una protagonista senza la statura tragica della vittima sacrificale, ma lirica e gentile, mentre la Malavasi denuncia limiti vocali troppo accentuati – almeno in questo repertorio – per costruire un vero personaggio. Simone Alberghini può contare su unottima dizione (che lo rende molto calzante nei recitativi) e una presenza scenica autorevole e accattivante (ideale per un personaggio barbarico e generoso come Orosmane): il timbro è però troppo povero, o affievolito, per questo grande ruolo di basso con scene damore e delirio, e anche il fraseggio – corretto e misurato – non è abbastanza carismatico e scolpito. Laltro basso, Abramo Rosalen, non vanta a sua volta una spiccata personalità, ma si disimpegna bene nel terzetto che è la sola pagina che Bellini gli concede, ed è pure uno dei momenti più emozionanti dellopera. In una parte di tenore utile più allevolversi della musica che della vicenda, Enea Scala mostra ottime potenzialità naturali, con un registro acuto notevole per qualità ed estensione. Resterebbe da lavorare per amalgamarlo al resto delledificio vocale: e non è un dettaglio.
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