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Oltre le barricate

di Paolo Patrizi
  Attila
Data di pubblicazione su web 29/05/2012  

 

Archiviate le celebrazioni per l’Unità d’Italia, con i vari Nabucco e Battaglia di Legnano che ne sono stati il corollario, il Verdi “risorgimentale” continua a mantenere il suo appeal metastorico: quest’Attila romano lo conferma e, al contempo, consente una ricognizione su come Riccardo Muti – che da più di quarant’anni restituisce a questo repertorio una grandezza drammaturgico-musicale poco palpabile con altri direttori – abbia sviluppato, evoluto, e oggi forse in parte ripensato, il suo approccio al primo Verdi.

 

Dagli anni ruggenti del giovane Muti al Maggio Fiorentino, dove Attila fu uno dei titoli-chiave, e passando attraverso un costante affinamento nel corso dei decenni, le letture mutiane hanno impresso un volto nuovo al Verdi degli “anni di galera”, al punto che non sempre è agevole stabilire il confine tra reali intenzioni dell’autore e vena demiurgica del direttore. Giusto o sbagliato che fosse, il Verdi “patriottico” è sempre stato interpretato come scontro tra mattatori vocali, inclini all’elettrizzante guasconata canora: neppure un concertatore né accomodante né convenzionale come Giulini (il primo a riproporre Attila nel dopoguerra) ha deragliato da questa visione “canorocentrica”. Muti, nel corso del tempo, ha invece maturato un concetto aristocratico – più alla Visconti Venosta che alla Garibaldi – del Risorgimento, un Risorgimento dunque dove i frutti risolutivi provengono non tanto dall’avanzare delle masse, ma da poche menti illuminate: una ponderata analisi politica vale più d’ogni barricata, i quarantottismi vocali poco significano rispetto a quelle articolazioni formali che solo una grande bacchetta può scandagliare.

 

Tutto questo, in concreto, significa restituire all’Attila – magari a costo d’imparentarlo oltremisura col Nabucco – il suo spessore sinfonico-corale; rendere evidente all’ascoltatore la singolarissima struttura, con quel crescere e decrescere come per frammenti, del Preludio; fondere, nel quadro dei profughi che sbarcano sulla laguna, la pittura d’ambiente con una dimensione evocativa quasi metafisica; plasmare i due monumentali concertati attraverso una sapiente dialettica tra analisi e sintesi (la “stretta” galoppante del Finale Secondo qui dà l’idea d’un momento di grande musica, non d’uno strumento retorico). Quanto alla capacità di far “cantare” l’orchestra, con una bellezza di suono mai fine a se stessa e tenendo ugualmente teso l’arco drammatico dal pianissimo al fortissimo, essa è da sempre una caratteristica di Muti: ma gli strumentisti dell’Opera di Roma non l’avevano mai così perfettamente assecondato e l’impressione è che solo ora, arrivata al sesto spettacolo sotto la sua bacchetta, l’orchestra capitolina abbia acquistato quella particolare fisionomia sonora che sancisce la simbiosi con un direttore.

 

Ugualmente riuscito il rapporto con il palcoscenico. Con Muti – per tutto ciò che si è detto – i cantanti non hanno un particolare risalto, ma sono in compenso molto ben sostenuti: il fraseggio strumentale plasma quello canoro e i tempi, anche quando possono sembrare poco comodi, hanno una perfetta coerenza psicologica che, sulla distanza, giova pure alla linea vocale. È il caso, nel prologo, della cabaletta del tenore: qui assai più centellinata rispetto a tante esecuzioni a briglia sciolta (la partitura d’altronde prescrive “Allegro”, ma “assai moderato”) eppure, proprio per questo, momento di pregnante verità drammatica. In questa prospettiva, un basso come Ildar Abdrazakov – non troppo carismatico ma di buona linea di canto, ottima dizione e autorevole presenza scenica – è un protagonista del tutto funzionale al disegno di Muti.

 

Una scena d'insieme. Foto di Silvia Lelli

 

Tatiana Serjan ha una pronuncia meno felice – il ruolo di Odabella, con la violenza dei suoi attacchi e il suo canto di sbalzo, rende problematica la nettezza della dizione – ma s’impone come la migliore in campo per solidità vocale, genuinità drammatica (i momenti pugnaci le sono più congeniali, quelli trasognati vengono comunque onorati con giusta espressione) e capacità dinamica (giocata per lo più tra il forte e mezzoforte, ma con un’estrema ricchezza di contrasti all’interno di tale ventaglio). La voce di Giuseppe Gipali – qualche anno fa tenore molto promettente – appare oggi un po’ sottodimensionata quanto a squillo ed espansione: compensa con una sobria nobiltà d’accento e fiati perfettamente manovrati. L’eclettico Nicola Alaimo tenta d’inserirsi in un antico filone di baritoni zigzaganti tra il comico e il drammatico (Bruscantini, Capecchi, Panerai, Romero…), ma è troppo lontano dai suoi illustri modelli e finisce col plasmare un Ezio al tempo stesso scolorito e grossier.

 

Pier Luigi Pizzi mira a un Attila antibarbarico: per l’elegante stilizzazione del segno scenografico e i costumi di moderna classicità, ma anche per intima convinzione. Non flagello di Dio bensì autocrate illuminato, l’Attila di Pizzi arriva a preservare i tesori di Roma invece che farne tabula rasa: quegli «urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine» di cui parla il libretto riguarda i suoi soldati e non certo lui stesso, che anzi entra in scena spegnendo con il proprio mantello un falò di libri, messi al rogo dalla masnada unna con iconoclastia culturale a metà tra Fahrenheit 451 e le esternazioni dell’ex ministro Tremonti. Sono abili flash visivi che, però, non s’inseriscono in una visione più ampia: sanamente lontano dal Konzept del Regietheater, ma anche più uomo d’arti figurative che vero teatrante, Pizzi resta propenso alla singola trovata piuttosto che all’ampia costruzione drammaturgica. Quanto alla recitazione, lascia sostanzialmente liberi sia i solisti (e può essere un bene) sia il coro (ma quello romano, che con Roberto Gabbiani ha raggiunto un ottimo livello musicale, è scenicamente troppo impacciato per rinunciare a una guida in tal senso). Sotto questo profilo, però, anche nel far poco si conferma un regista musicale. I “da capo” delle cabalette, si sa, andrebbero almeno moderatamente variati: e nel passaggio tra la prima esposizione e la ripresa Pizzi suggerisce ai cantanti una variazione di gestualità e postura, che si riflette pure nel fraseggio.


Attila
Dramma lirico in un prologo e tre atti


cast cast & credits

 
Ildar Abdrazakov (Attila) e Tatiana Serjan (Odabella)





 
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