Archiviate le celebrazioni per lUnità dItalia, con i vari Nabucco e Battaglia di Legnano che ne sono stati il corollario, il Verdi “risorgimentale” continua a mantenere il suo appeal metastorico: questAttila romano lo conferma e, al contempo, consente una ricognizione su come Riccardo Muti che da più di quarantanni restituisce a questo repertorio una grandezza drammaturgico-musicale poco palpabile con altri direttori abbia sviluppato, evoluto, e oggi forse in parte ripensato, il suo approccio al primo Verdi.
Dagli anni ruggenti del giovane Muti al Maggio Fiorentino, dove Attila fu uno dei titoli-chiave, e passando attraverso un costante affinamento nel corso dei decenni, le letture mutiane hanno impresso un volto nuovo al Verdi degli “anni di galera”, al punto che non sempre è agevole stabilire il confine tra reali intenzioni dellautore e vena demiurgica del direttore. Giusto o sbagliato che fosse, il Verdi “patriottico” è sempre stato interpretato come scontro tra mattatori vocali, inclini allelettrizzante guasconata canora: neppure un concertatore né accomodante né convenzionale come Giulini (il primo a riproporre Attila nel dopoguerra) ha deragliato da questa visione “canorocentrica”. Muti, nel corso del tempo, ha invece maturato un concetto aristocratico più alla Visconti Venosta che alla Garibaldi del Risorgimento, un Risorgimento dunque dove i frutti risolutivi provengono non tanto dallavanzare delle masse, ma da poche menti illuminate: una ponderata analisi politica vale più dogni barricata, i quarantottismi vocali poco significano rispetto a quelle articolazioni formali che solo una grande bacchetta può scandagliare.
Tutto questo, in concreto, significa restituire allAttila magari a costo dimparentarlo oltremisura col Nabucco il suo spessore sinfonico-corale; rendere evidente allascoltatore la singolarissima struttura, con quel crescere e decrescere come per frammenti, del Preludio; fondere, nel quadro dei profughi che sbarcano sulla laguna, la pittura dambiente con una dimensione evocativa quasi metafisica; plasmare i due monumentali concertati attraverso una sapiente dialettica tra analisi e sintesi (la “stretta” galoppante del Finale Secondo qui dà lidea dun momento di grande musica, non duno strumento retorico). Quanto alla capacità di far “cantare” lorchestra, con una bellezza di suono mai fine a se stessa e tenendo ugualmente teso larco drammatico dal pianissimo al fortissimo, essa è da sempre una caratteristica di Muti: ma gli strumentisti dellOpera di Roma non lavevano mai così perfettamente assecondato e limpressione è che solo ora, arrivata al sesto spettacolo sotto la sua bacchetta, lorchestra capitolina abbia acquistato quella particolare fisionomia sonora che sancisce la simbiosi con un direttore.
Ugualmente riuscito il rapporto con il palcoscenico. Con Muti per tutto ciò che si è detto i cantanti non hanno un particolare risalto, ma sono in compenso molto ben sostenuti: il fraseggio strumentale plasma quello canoro e i tempi, anche quando possono sembrare poco comodi, hanno una perfetta coerenza psicologica che, sulla distanza, giova pure alla linea vocale. È il caso, nel prologo, della cabaletta del tenore: qui assai più centellinata rispetto a tante esecuzioni a briglia sciolta (la partitura daltronde prescrive “Allegro”, ma “assai moderato”) eppure, proprio per questo, momento di pregnante verità drammatica. In questa prospettiva, un basso come Ildar Abdrazakov non troppo carismatico ma di buona linea di canto, ottima dizione e autorevole presenza scenica è un protagonista del tutto funzionale al disegno di Muti.
Una scena d'insieme. Foto di Silvia Lelli
Tatiana Serjan ha una pronuncia meno felice il ruolo di Odabella, con la violenza dei suoi attacchi e il suo canto di sbalzo, rende problematica la nettezza della dizione ma simpone come la migliore in campo per solidità vocale, genuinità drammatica (i momenti pugnaci le sono più congeniali, quelli trasognati vengono comunque onorati con giusta espressione) e capacità dinamica (giocata per lo più tra il forte e mezzoforte, ma con unestrema ricchezza di contrasti allinterno di tale ventaglio). La voce di Giuseppe Gipali qualche anno fa tenore molto promettente appare oggi un po sottodimensionata quanto a squillo ed espansione: compensa con una sobria nobiltà daccento e fiati perfettamente manovrati. Leclettico Nicola Alaimo tenta dinserirsi in un antico filone di baritoni zigzaganti tra il comico e il drammatico (Bruscantini, Capecchi, Panerai, Romero
), ma è troppo lontano dai suoi illustri modelli e finisce col plasmare un Ezio al tempo stesso scolorito e grossier.
Pier Luigi Pizzi mira a un Attila antibarbarico: per lelegante stilizzazione del segno scenografico e i costumi di moderna classicità, ma anche per intima convinzione. Non flagello di Dio bensì autocrate illuminato, lAttila di Pizzi arriva a preservare i tesori di Roma invece che farne tabula rasa: quegli «urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine» di cui parla il libretto riguarda i suoi soldati e non certo lui stesso, che anzi entra in scena spegnendo con il proprio mantello un falò di libri, messi al rogo dalla masnada unna con iconoclastia culturale a metà tra Fahrenheit 451 e le esternazioni dellex ministro Tremonti. Sono abili flash visivi che, però, non sinseriscono in una visione più ampia: sanamente lontano dal Konzept del Regietheater, ma anche più uomo darti figurative che vero teatrante, Pizzi resta propenso alla singola trovata piuttosto che allampia costruzione drammaturgica. Quanto alla recitazione, lascia sostanzialmente liberi sia i solisti (e può essere un bene) sia il coro (ma quello romano, che con Roberto Gabbiani ha raggiunto un ottimo livello musicale, è scenicamente troppo impacciato per rinunciare a una guida in tal senso). Sotto questo profilo, però, anche nel far poco si conferma un regista musicale. I “da capo” delle cabalette, si sa, andrebbero almeno moderatamente variati: e nel passaggio tra la prima esposizione e la ripresa Pizzi suggerisce ai cantanti una variazione di gestualità e postura, che si riflette pure nel fraseggio.
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