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Se non il senso, l’emozione

di Elisa Uffreduzzi
  Fabbrica Europa 2012 - XIX edizione
Data di pubblicazione su web 23/05/2012  

Si è concluso lo scorso 13 maggio Fabbrica Europa, Festival internazionale della scena contemporanea, ormai giunto alla sua XIX edizione che tradizionalmente adotta come cornice privilegiata quella della Stazione Leopolda di Firenze, aprendosi tuttavia anche a performance ed eventi en plein air, per le strade della città. Quest’anno più che mai il Festival è particolarmente versato sul piano della danza e non a caso proprio all’insegna dell’arte coreutica si è aperto lo scorso 3 maggio, con la Prima Nazionale di Oedipus/Bęt noir (2011), del belga Wim Vandekeybus, che con la sua compagnia Ultima Vez, ha presentato nell’elegante location del Teatro della Pergola di Firenze, un adattamento decisamente anticonvenzionale della celebre tragedia di Sofocle, con un variegato cast di danzatori, attori e musicisti. Anche la serata successiva ha avuto l’onore di ospitare una Prima Nazionale, quella di Tournois, lo spettacolo ideato da Erika Zueneli per la compagnia L’Yeuse e concepito come terzo capitolo di un più ampio discorso sul conflitto.




W.Vandekeybus, Oedipus/Bęt noir ©Danny Willems 2011

 

Ma per Fabbrica Europa danza non significa soltanto spettacolo e coreografia nel senso più puro e convenzionale del termine. Quella messa in scena da Massimiliano Barachini in Mindscape (story) è infatti una vera e propria esegesi della sua stessa arte coreografica e forse della danza contemporanea in generale che, sempre più concettuale e sempre meno ancorata a una tecnica e a uno specifico allenamento “atletico”, appare spesso un territorio dai contorni poco definiti, zona franca in cui trovano una collocazione fenomeni al limite della performance teatrale e dello spettacolo tout court. In quindici minuti completamente privi di musica, Barachini dialoga col pubblico e - tra il serio e il faceto - crea qualcosa di inconsueto, a metà tra le prove in scena e la messinscena vera e propria. Così, mentre il pubblico sta ancora cercando di interpretare quanto vede farsi davanti ai suoi occhi, si ritrova già complice del gioco, ride, risponde alle domande e dunque è in fin dei conti già convinto.

Certo, di danza vera e propria vediamo ben poco: Barachini – seguito come un’ombra da Jacopo Jenna, che ne ricalca i gesti – esegue una serie di “bozze coreografiche”, scene visive al limite di un mimo molto stilizzato, che l’artista stesso spiega passo-passo, mentre li mostra. Ogni movimento trova così un senso e una giustificazione. Il palco completamente spoglio, le luci accese anche e soprattutto sugli spettatori, Barachini in questa serie di scene mimate e commentate traccia una sorta di autobiografia semi-seria, in cui ironizzando descrive con pochi tocchi aspetti del proprio vissuto che solleticano l’emotività del pubblico. In quest’autobiografia a passo di danza Jenna fa le veci del fratello, mentre scopriamo i giochi dell’infanzia, la timidezza, la paura di vivere e insieme il senso di una danza contemporanea che ha rinunciato all’ancora della tecnica per un nuovo tipo di racconto per immagini. Infine i danzatori eseguono una seconda volta la sequenza che ci hanno mostrato, stavolta senza commento verbale ed ecco che ora, per dirla con Barachini, abbiamo capito, ma se non ce lo avesse spiegato, probabilmente, non avremmo capito niente.

 

Un discorso concettualmente simile, ma con diverso esito, conduce lo spettacolo di Company Blu, Come - rifugio delle analogie, eclettico e disordinato accumulo di diversi momenti che, nonostante l’ironia ravvisabile, fatica a trovare un suo perché: pur riconoscendo inequivocabilmente quanto la strutturazione estemporanea dello spettacolo sia frutto di un preciso disegno, dichiarato fin dal titolo, lo spettacolo perde la sua ragion d’essere nel momento stesso in cui rinuncia allo scopo principale di ogni forma d’arte che è comunicazione, di un messaggio, di un’emozione o finanche di non averne affatto. Pochi e radi movimenti fanno da contrappunto a una serie di performance: un uomo e una donna cantano a ritmo esasperatamente rallentato Like a virgin di Madonna, palline metalliche scivolano lungo il pavimento, un uomo accenna di voler giocare a basket, poi rinuncia, scampoli di dialoghi, rumore, musica, una delle danzatrici gira su se stessa a piccoli passi, abiti quotidiani, poi una presa di danza… non c’è filo conduttore, se non, appunto, quello delle analogie evocate dal titolo, che fatichiamo però a riconoscere e interpretare, nell’affastellarsi di momenti tanto diversi e forse questo è in parte imputabile proprio alla cifra dell’improvvisazione, specifico coreutico e insieme penalizzazione dello spettacolo. Parlare di danza è forse già fuori luogo in un contesto come questo, più appropriata, semmai, la già menzionata definizione di performance. Manca qui più che mai un Barachini a fare le veci del narratore esterno, mentre la qualità estetica del movimento mantiene solo radi appigli per un pubblico che crede di essere pervenuto a uno spettacolo pur sempre di danza. Merita senz’altro una nota a parte Claudia Catarzi, capace nei radi momenti più coreografici in senso convenzionale, di ricavarsi un cono di luce metaforico, solo con la qualità del suo movimento, davvero magnetica.



Nacera Belaza ©Stephane Bellocq

 

Il recupero della memoria più che la celebrazione, sta alla base della concezione coreutica di Progetto RIC.CI: ideato da Marinella Guatterini – che ne cura anche la direzione artistica, coadiuvata dall’assistente Myriam Dolce – questa interessante realtà si propone di rimettere in scena le coreografie che hanno fatto la storia della danza contemporanea italiana degli anni Ottanta e Novanta. È in questo contesto di memoria e condivisione che si pone anche Duetto, “creatura” di Virgilio Sieni e Alessandro Certini (fondatore, insieme a Charotte Zerbey di Company Blu), che dal 1989 torna oggi a catturare l’attenzione del pubblico. Creata allora per l’ormai estinto Parco Butterfly, la interpretano per Fabbrica Europa Mattia Agatiello e Riccardo Olivier, della compagnia Fattoria Vittadini. Lo spettacolo, che ha già debuttato a TorinoDanza 2011, si avvale di una scenografia ridotta all’osso (un fondale, che i giochi di luce rivelano in blu) e pochi ma significativi oggetti di scena, formato-gigante. Cartonati di fulmini, scudi, enormi archi rudimentali, pietre blu, pietre bianche insanguinate, infine una canoa, anch’essa blu (ispirata all’opera dell’artista francese Yves Klein), che scende dall’alto in chiusura della coreografia, simbolo del viaggio dell’eroe oltre se stesso e termine del suo percorso di apprendistato spirituale: questi alcuni degli attrezzi di scena, sineddoche di un immaginario di matrice orientale certo, ma anche della figuratività greco-antica. Oggetti che, di concerto con i costumi di Loretta Mugnai, di eco indiana e medievale insieme – sorta di pigiama palazzo in giallo oro e velluto rosso – creano un interessante dialogo mitologico-culturale con la vicenda narrata. Lo spettacolo s’ispira infatti al Bhagavadgītā, dal VI parvan del poema epico indiano Mahābhārata.

È la storia di un guerriero, qui sdoppiato nei due danzatori interpreti, che dunque si confronta in primo luogo con se stesso. La coreografia si compone di azioni speculari, azioni all’unisono, momenti di maggiore differenziazione tra le due interpretazioni in scena e pause insistite, ieratiche. Si tratta di un lavoro fortemente “iconografico”, nella misura in cui sfrutta gli aspetti simbolici del gesto, cui fanno da contrappunto brevi episodi narrativi, come metope di un antico tempio greco. Pur trattandosi di una narrazione essenzialmente astratta, il sottotitolo l’importanza della trasmigrazione degli ultimi sciamani si riferisce all’intento di infondere alla rappresentazione una dimensione rituale, oltreché interpretare l’importanza della trasmigrazione. Alessandro Certiniche ha curato il ri-allestimento del pezzo – nel ri-coreografare un lavoro tanto articolato e visceralmente legato alle caratteristiche dei due autori/danzatori, pur mantenendo l’impianto coreografico originale, lo ha intelligentemente adattato ai suoi nuovi interpreti e alla loro diversa fisicità. In questo senso il lavoro si apre all’apporto dell’interprete, che fa proprio il movimento, come si evince ad esempio dalla mimica del volto, parte importante dello spettacolo.

Sulle musiche di Igor Stravinskij, Johann Sebastian Bach e Giancarlo Cardini, intervengono le voci di Joseph Beuys (estratti di un suo monologo) e Billie Holiday (stralci di sue interpretazioni canore), mentre i due danzatori in scena vengono a singolar tenzone sulla scena, creando un cortocircuito semantico in cui orientalismo, mitologia greca, sacralità religiosa e fantasia medieval-cortese interagiscono e si compenetrano in un tutto ben amalgamato e fluido. Lo spettacolo è ordito attraverso una serie di fasi diverse che si succedono, come piccoli episodi, battaglie di un conflitto più ampio. La tipologia del movimento che vediamo svolgersi tradisce più di altri pezzi visti all’interno della rassegna, la reminiscenza della tecnica classica di base, sebbene già ampiamente digerita e oltrepassata. Pose plastiche – spesso “deittiche” nei confronti degli oggetti in scena – ed enfatiche, rievocano da lontano l’Apollon musagète balanchiniano, mentre renversé ed esasperazione dell’equilibrio, tracciano nello spazio linee potenti e fluide. In contrasto con le solenni movenze del duello, che ha il suo apice nei colpi a suon di petali bianchi, punteggiano lo spettacolo momenti di “riappacificazione” in cui i due danzatori eseguono “a specchio” pose simmetriche mediante le quali costruiscono mostruose figure mitologiche a due teste, cui prestano i propri arti, come a voler significare che il conflitto (con se stessi e con l’altro) è solo una faccia della medaglia, necessaria tappa di formazione per l’essere umano. 

 

Compagnie Nacera Belaza propone Le trait, presentazione del lavoro, allo stato attuale ancora in corso di formazione, che verrà poi mostrato al festival di Avignone 2012. Al pubblico di Fabbrica Europa dunque, il privilegio di sperimentare insieme alla coreografa e interprete dalla quale prende il nome la compagnia, il feedback che da un lavoro così peculiare può scaturire. Nacera, che danza lei stessa con la sorella Dalila e i due danzatori Mohamed Ali Djermane e Lofti Mohand Arab, ha ideato un trittico dalla struttura “strofica” A-B-A. La prima parte Solo 1 – La Nuit, interpretata dalla stessa Nacera, è un’esibizione minimalista, in cui l’attenzione e la pazienza del pubblico vengono saggiate e debitamente ricompensate, attraverso il lento incedere della protagonista, che si esibisce in una serie di movimenti dalla lentezza estenuante, tanto da sembrare al ralenti, per dirla in termini cinematografici. La dilatazione temporale viene fortemente enfatizzata dall’uso delle luci, che scolpiscono la figura nel buio completo della sala, ora facendola emergere appena dall’oscurità, ora ri-piombandola in essa. Ideate dalla stessa Nacera e dirette da Èric Soyer, le luci costituiscono parte integrante e imprescindibile dello spettacolo stesso, non soltanto nella misura in cui influiscono sulla sensazione del tempo rallentandolo ulteriormente e conferiscono alla dimensione dinamica un’aura sacrale molto suggestiva, ma anche perché la torre-luci presente sul fondale della scena, ne diviene parte, in un effetto visivo singolare e chissà se e quanto voluto. Mentre, dal basso continuo del rumore sommesso eppure assordante che apre lo spettacolo, emerge a poco a poco il brusio assordante di una città, la superficie dei fari in scena riflette la luce soffusa proveniente dalla direzione opposta. In questo modo la struttura sul fondale assume i contorni di una singolare costruzione architettonica urbana (un palazzo? Una cattedrale?), proprio mentre il tappeto sonoro ci restituisce il sottofondo di un contesto cittadino affollato. Dopo il buio totale che segna il passaggio, la seconda parte dello spettacolo, Duo – Le Cercle, è invece interpretata dai due danzatori Mohamed Ali Djermane e Lofti Mohand Arab. Il ritmo tribale percussivo si fa iper-veloce, parimenti alla danza, in netto contrasto con Solo 1. I due danzatori, dapprima l’uno di fianco all’altro e frontali rispetto al pubblico, poi avvicendandosi al centro della scena in una sorta di agone che ricorda da vicino quelli tipici della breakdance di strada, eseguono rapidi movimenti prima più ordinati, poi più scomposti, come posseduti dalla musica tribale che li accompagna, in una sorta di epilessia ritmica. Questa seconda sezione dello spettacolo si snoda in una serie di momenti nettamente distinguibili tra loro, dai movimenti più scomposti ai salti sempre più elevati a, di nuovo, l’iperattività dei movimenti più rapidi e scoordinati, e così via, fino al buio silenzioso che segna il passaggio alla terza e ultima sezione. Chiude il cerchio e lo spettacolo, Solo 2 – titre en cours, in cui Dalila Belaza, sul rumore di fondo di un vento forte e costante, crea una partitura coreografica che pur richiamando inequivocabilmente quella di Solo 1, se ne distingue decisamente. Dapprima una camminata “al ralenti”, dal proscenio verso il centro della scena, poi, stabilita quella posizione sul palco, comincia una serie potenzialmente infinita di passi compiuti girando su se stessa e descrivendo al contempo dei cerchi concentrici sul suolo. In un meccanismo ipnotico che anziché stancare ed esasperare, incanta lo spettatore, come partecipe di un rito esoterico ancestrale e nuovo insieme. In una rappresentazione coreografica siffatta, la musica e il rumore sono ancora un supporto del movimento, ma non in senso convenzionale: lungi dal costituire un vincolo per il movimento ne sono al servizio, utili più a veicolare un’atmosfera che un ritmo da seguire. Le trait del titolo è allora quello d’union, tra le diverse strofe della poesia scenica della coreografa algerina, ma anche tra le danze tradizionali algerine, presenti in forma per così dire sublimata e la danza eterea proposta dalle sorelle Belaza, che dopo anni di duetti, scelgono stavolta di danzare ciascuna il proprio solo, divise eppure legate da quel trait (d’union) invisibile eppure così evidente nella similitudine delle coreografie rispettivamente proposte.



MK ©Andrea Macchia

 

Il giro del mondo in 80 giorni è la nuova proposta di MK (coreografia di Michele Di stefano), compagnia italiana di danza contemporanea che ospita al suo interno danzatori di varia età e formazione e al cast originale aggiunge ad ogni nuova produzione artisti che offrono il loro apporto al progetto coreutico del gruppo. Già noto sulla scena internazionale, l’ensemble MK, con lo spettacolo ispirato al romanzo di Jules Verne, mette in scena un singolare itinerario allegorico intorno al mondo, attraverso varie civiltà, popoli e tradizioni. In quest’ottica gli oggetti di scena divengono metonimia di realtà etnografiche diverse: così, se la tenda da campeggio in scena sin dall’incipit e le giacche impermeabili indossate dagli interpreti per una parte dello spettacolo, rievocano l’idea del viaggio e dell’avventura, il golf (un danzatore in perfetta tenuta da giocatore, poi un cesto di palline scaraventate a terra, che invadono la scena) è il simbolo di un occidente borghese e standardizzato, così come i calici che un performer in vestaglia estrae ostentatamente dalle proprie tasche; mentre il cappello di paglia ci parla di un oriente povero ma ricco delle sue tradizioni. Lo stesso linguaggio coreografico diviene oggetto di riflessione e insieme una sorta di “viaggio nel viaggio”: dalla danza della pioggia che una delle danzatrici della compagnia esegue (accompagnata dal sottofondo di un temporale e gocce d’acqua vaporizzate in scena), alla parodia delle danze polinesiane che altri due interpreti, pareo in vita, compiono di fronte al pubblico. Come si evince già da quanto detto sinora, l’ironia è un elemento presente anche in questo spettacolo: ne sia prova incontrovertibile la divertente scena sui rumori della natura, in cui sulla registrazione del suono d’ambiente di una campagna abitata da oche e altri volatili, due danzatori suggeriscono attraverso la gestualità “a scatti”, la condizione animale. Tra rumore, espressione verbale sul palco e non, trovano spazio anche i quattro elementi della Natura, stigmatizzati nella sabbia sparsa al suolo a inizio spettacolo, nell’acqua vaporizzata in scena, nel fumo nero diffuso dai bocchettoni sul pavimento, nello spazio sondato dal gesto. Disordinato affastellarsi di momenti diversi, eseguiti sia contemporaneamente sulla scena, che in sequenza, lo spettacolo manca di una coerenza intrinseca. Si tratta certamente di un effetto voluto, a resa della multiforme esperienza, insita nella stessa concezione di un viaggio intorno al mondo, tuttavia quello che vediamo nel complesso manca di una sua organicità, di un filo conduttore che se anche non deve spiegare, almeno giustifichi in una qualche misura, quanto vediamo. In ciò sta insieme il pregio e la pecca della performance. Non si vuole qui stare a sindacare sul significato di ogni singola scelta scenografica o performativa, ché nessun viaggiatore alla scoperta di un “nuovo mondo” ha saputo comprendere tutto quanto conosceva al primo sguardo, tuttavia negare una linea guida all’interno dello spettacolo stesso, è un atto di profondo egoismo, che viene meno alla funzione di comunicazione alla radice di ogni forma d’arte. Certo questa sensazione di caos deriva anche dalla qualità di movimento dei danzatori, che tanto varia dall’uno all’altro. Spicca tra questi, per l’innegabile preparazione tecnica oltreché per la fisicità e l’eleganza delle linee, Laura Scarpini, danzatrice stabile all’interno della compagnia, che da sola vale senz’altro la visione dell’intera serata.

 

A conti fatti, tra gli spettacoli visti nell’ambito di Fabbrica Europa 2012, troppo spesso l’ironia diviene una sorta di atout che autorizza ogni tipo di messinscena e movimento, generando così l’equivoco di fondo per cui tutto è danza, al di là di ogni ipotesi di senso. Sta bene, ma si lascino allo spettatore per lo meno l’atmosfera, l’emozione della visione, la suggestione estetica, giacché, se vengono a mancare anche queste, l’Arte non è più tale e lo spettatore perde con essa il suo stesso status di pubblico. In questo senso allora, tra le coreografie visionate, quello che più e meglio ha saputo interpretare un’istanza di rinnovamento – oltre il senso eppure ancora Arte, nella misura che si è detto – rimane la proposta di Nacera Belaza, così suggestiva, persuasiva e malinconicamente espressiva.






Fabbrica Europa 2012 - XIX edizione
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