Si
è concluso lo scorso 13 maggio Fabbrica Europa, Festival internazionale della
scena contemporanea, ormai giunto alla sua XIX edizione che tradizionalmente
adotta come cornice privilegiata quella della Stazione Leopolda di Firenze,
aprendosi tuttavia anche a performance ed eventi en plein air, per le strade
della città. Questanno più che mai il Festival è particolarmente versato sul
piano della danza e non a caso proprio allinsegna dellarte coreutica si è
aperto lo scorso 3 maggio, con la Prima Nazionale di Oedipus/Bęt noir (2011), del belga Wim Vandekeybus, che con la sua compagnia Ultima Vez, ha presentato nellelegante location del Teatro della
Pergola di Firenze, un adattamento decisamente anticonvenzionale della celebre
tragedia di Sofocle, con un variegato cast di danzatori, attori e musicisti. Anche
la serata successiva ha avuto lonore di ospitare una Prima Nazionale, quella
di Tournois, lo spettacolo ideato da Erika Zueneli per la compagnia LYeuse e concepito come terzo capitolo
di un più ampio discorso sul conflitto.
W.Vandekeybus,
Oedipus/Bęt noir ©Danny Willems 2011
Ma
per Fabbrica Europa danza non significa soltanto spettacolo e coreografia nel
senso più puro e convenzionale del termine. Quella messa in scena da Massimiliano Barachini in Mindscape (story) è infatti una vera e
propria esegesi della sua stessa arte coreografica e forse della danza
contemporanea in generale che, sempre più concettuale e sempre meno ancorata a
una tecnica e a uno specifico allenamento “atletico”, appare spesso un
territorio dai contorni poco definiti, zona franca in cui trovano una
collocazione fenomeni al limite della performance
teatrale e dello spettacolo tout court.
In quindici minuti completamente privi di musica, Barachini dialoga col pubblico
e - tra il serio e il faceto - crea qualcosa di inconsueto, a metà tra le prove
in scena e la messinscena vera e propria. Così, mentre il pubblico sta ancora cercando
di interpretare quanto vede farsi davanti ai suoi occhi, si ritrova già
complice del gioco, ride, risponde alle domande e dunque è in fin dei conti già
convinto.
Certo,
di danza vera e propria vediamo ben poco: Barachini – seguito come unombra da
Jacopo Jenna, che ne ricalca i gesti – esegue una serie di “bozze coreografiche”,
scene visive al limite di un mimo molto stilizzato, che lartista stesso spiega
passo-passo, mentre li mostra. Ogni movimento trova così un senso e una
giustificazione. Il palco completamente spoglio, le luci accese anche e
soprattutto sugli spettatori, Barachini in questa serie di scene mimate e
commentate traccia una sorta di autobiografia semi-seria, in cui ironizzando
descrive con pochi tocchi aspetti del proprio vissuto che solleticano
lemotività del pubblico. In questautobiografia a passo di danza Jenna fa le
veci del fratello, mentre scopriamo i giochi dellinfanzia, la timidezza, la
paura di vivere e insieme il senso di una danza contemporanea che ha rinunciato
allancora della tecnica per un nuovo tipo di racconto per immagini. Infine i
danzatori eseguono una seconda volta la sequenza che ci hanno mostrato,
stavolta senza commento verbale ed ecco che ora, per dirla con Barachini,
abbiamo capito, ma se non ce lo avesse spiegato, probabilmente, non avremmo
capito niente.
Un
discorso concettualmente simile, ma con diverso esito, conduce lo spettacolo di
Company Blu, Come - rifugio delle analogie, eclettico e disordinato accumulo di
diversi momenti che, nonostante lironia ravvisabile, fatica a trovare un suo
perché: pur riconoscendo inequivocabilmente quanto la strutturazione
estemporanea dello spettacolo sia frutto di un preciso disegno, dichiarato fin
dal titolo, lo spettacolo perde la sua ragion dessere nel momento stesso in
cui rinuncia allo scopo principale di ogni forma darte che è comunicazione, di
un messaggio, di unemozione o finanche di non averne affatto. Pochi e radi
movimenti fanno da contrappunto a una serie di performance: un uomo e una donna cantano a ritmo esasperatamente
rallentato Like a virgin di Madonna,
palline metalliche scivolano lungo il pavimento, un uomo accenna di voler
giocare a basket, poi rinuncia, scampoli di dialoghi, rumore, musica, una delle
danzatrici gira su se stessa a piccoli passi, abiti quotidiani, poi una presa
di danza… non cè filo conduttore, se non, appunto, quello delle analogie
evocate dal titolo, che fatichiamo però a riconoscere e interpretare,
nellaffastellarsi di momenti tanto diversi e forse questo è in parte
imputabile proprio alla cifra dellimprovvisazione, specifico coreutico e
insieme penalizzazione dello spettacolo. Parlare di danza è forse già fuori
luogo in un contesto come questo, più appropriata, semmai, la già menzionata
definizione di performance. Manca qui più che mai un Barachini a fare le veci
del narratore esterno, mentre la qualità estetica del movimento mantiene solo
radi appigli per un pubblico che crede di essere pervenuto a uno spettacolo pur
sempre di danza. Merita senzaltro una nota a parte Claudia Catarzi, capace nei radi momenti più coreografici in senso
convenzionale, di ricavarsi un cono di luce metaforico, solo con la qualità del
suo movimento, davvero magnetica.
Nacera Belaza ©Stephane
Bellocq
Il
recupero della memoria più che la celebrazione, sta alla base della concezione
coreutica di Progetto RIC.CI: ideato
da Marinella Guatterini – che ne
cura anche la direzione artistica, coadiuvata dallassistente Myriam Dolce – questa interessante
realtà si propone di rimettere in scena le coreografie che hanno fatto la
storia della danza contemporanea italiana degli anni Ottanta e Novanta. È in
questo contesto di memoria e condivisione che si pone anche Duetto, “creatura” di Virgilio Sieni e Alessandro Certini (fondatore, insieme a Charotte Zerbey di Company Blu), che dal 1989 torna oggi a
catturare lattenzione del pubblico. Creata allora per lormai estinto Parco Butterfly, la interpretano per
Fabbrica Europa Mattia Agatiello e Riccardo Olivier, della compagnia Fattoria Vittadini. Lo spettacolo, che
ha già debuttato a TorinoDanza 2011, si avvale di una scenografia ridotta
allosso (un fondale, che i giochi di luce rivelano in blu) e pochi ma
significativi oggetti di scena, formato-gigante. Cartonati di fulmini, scudi,
enormi archi rudimentali, pietre blu, pietre bianche insanguinate, infine una
canoa, anchessa blu (ispirata allopera dellartista francese Yves Klein), che
scende dallalto in chiusura della coreografia, simbolo del viaggio delleroe
oltre se stesso e termine del suo percorso di apprendistato spirituale: questi
alcuni degli attrezzi di scena, sineddoche di un immaginario di matrice
orientale certo, ma anche della figuratività greco-antica. Oggetti che, di
concerto con i costumi di Loretta Mugnai,
di eco indiana e medievale insieme – sorta di pigiama palazzo in giallo oro e
velluto rosso – creano un interessante dialogo mitologico-culturale con la
vicenda narrata. Lo spettacolo sispira infatti al Bhagavadgītā, dal VI parvan del poema epico indiano Mahābhārata.
È
la storia di un guerriero, qui sdoppiato nei due danzatori interpreti, che
dunque si confronta in primo luogo con se stesso. La coreografia si compone di
azioni speculari, azioni allunisono, momenti di maggiore differenziazione tra
le due interpretazioni in scena e pause insistite, ieratiche. Si tratta di un
lavoro fortemente “iconografico”, nella misura in cui sfrutta gli aspetti
simbolici del gesto, cui fanno da contrappunto brevi episodi narrativi, come
metope di un antico tempio greco. Pur trattandosi di una narrazione
essenzialmente astratta, il sottotitolo limportanza
della trasmigrazione degli ultimi sciamani si riferisce allintento di
infondere alla rappresentazione una dimensione rituale, oltreché interpretare
limportanza della trasmigrazione. Alessandro Certini – che ha curato il ri-allestimento del pezzo – nel ri-coreografare
un lavoro tanto articolato e visceralmente legato alle caratteristiche dei due
autori/danzatori, pur mantenendo limpianto coreografico originale, lo ha
intelligentemente adattato ai suoi nuovi interpreti e alla loro diversa
fisicità. In questo senso il lavoro si apre allapporto dellinterprete, che fa
proprio il movimento, come si evince ad esempio dalla mimica del volto, parte
importante dello spettacolo.
Sulle
musiche di Igor Stravinskij, Johann Sebastian Bach e Giancarlo Cardini,
intervengono le voci di Joseph Beuys (estratti di un suo monologo) e Billie
Holiday (stralci di sue interpretazioni canore), mentre i due danzatori in
scena vengono a singolar tenzone sulla scena, creando un cortocircuito
semantico in cui orientalismo, mitologia greca, sacralità religiosa e fantasia
medieval-cortese interagiscono e si compenetrano in un tutto ben amalgamato e
fluido. Lo spettacolo è ordito attraverso una serie di fasi diverse che si
succedono, come piccoli episodi, battaglie di un conflitto più ampio. La
tipologia del movimento che vediamo svolgersi tradisce più di altri pezzi visti
allinterno della rassegna, la reminiscenza della tecnica classica di base,
sebbene già ampiamente digerita e oltrepassata. Pose plastiche – spesso “deittiche”
nei confronti degli oggetti in scena – ed enfatiche, rievocano da lontano lApollon musagète balanchiniano, mentre renversé ed esasperazione
dellequilibrio, tracciano nello spazio linee potenti e fluide. In contrasto
con le solenni movenze del duello, che ha il suo apice nei colpi a suon di
petali bianchi, punteggiano lo spettacolo momenti di “riappacificazione” in cui
i due danzatori eseguono “a specchio” pose simmetriche mediante le quali
costruiscono mostruose figure mitologiche a due teste, cui prestano i propri
arti, come a voler significare che il conflitto (con se stessi e con laltro) è
solo una faccia della medaglia, necessaria tappa di formazione per lessere
umano.
Compagnie Nacera
Belaza
propone Le trait, presentazione del
lavoro, allo stato attuale ancora in corso di formazione, che verrà poi
mostrato al festival di Avignone 2012. Al pubblico di Fabbrica Europa dunque,
il privilegio di sperimentare insieme alla coreografa e interprete dalla quale
prende il nome la compagnia, il feedback
che da un lavoro così peculiare può scaturire. Nacera, che danza lei stessa con
la sorella Dalila e i due danzatori Mohamed
Ali Djermane e Lofti Mohand Arab,
ha ideato un trittico dalla struttura “strofica” A-B-A. La prima parte Solo 1 – La Nuit, interpretata dalla
stessa Nacera, è unesibizione minimalista, in cui lattenzione e la pazienza
del pubblico vengono saggiate e debitamente ricompensate, attraverso il lento
incedere della protagonista, che si esibisce in una serie di movimenti dalla
lentezza estenuante, tanto da sembrare al
ralenti, per dirla in termini cinematografici. La dilatazione temporale
viene fortemente enfatizzata dalluso delle luci, che scolpiscono la figura nel
buio completo della sala, ora facendola emergere appena dalloscurità, ora ri-piombandola
in essa. Ideate dalla stessa Nacera e dirette da Èric Soyer, le luci costituiscono parte integrante e
imprescindibile dello spettacolo stesso, non soltanto nella misura in cui
influiscono sulla sensazione del tempo rallentandolo ulteriormente e
conferiscono alla dimensione dinamica unaura sacrale molto suggestiva, ma
anche perché la torre-luci presente sul fondale della scena, ne diviene parte,
in un effetto visivo singolare e chissà se e quanto voluto. Mentre, dal basso
continuo del rumore sommesso eppure assordante che apre lo spettacolo, emerge a
poco a poco il brusio assordante di una città, la superficie dei fari in scena riflette
la luce soffusa proveniente dalla direzione opposta. In questo modo la struttura
sul fondale assume i contorni di una singolare costruzione architettonica
urbana (un palazzo? Una cattedrale?), proprio mentre il tappeto sonoro ci
restituisce il sottofondo di un contesto cittadino affollato. Dopo il buio
totale che segna il passaggio, la seconda parte dello spettacolo, Duo – Le Cercle, è invece interpretata
dai due danzatori Mohamed Ali Djermane e Lofti Mohand Arab. Il ritmo tribale
percussivo si fa iper-veloce, parimenti alla danza, in netto contrasto con Solo 1. I due danzatori, dapprima luno
di fianco allaltro e frontali rispetto al pubblico, poi avvicendandosi al
centro della scena in una sorta di agone che ricorda da vicino quelli tipici della
breakdance di strada, eseguono rapidi
movimenti prima più ordinati, poi più scomposti, come posseduti dalla musica
tribale che li accompagna, in una sorta di epilessia ritmica. Questa seconda
sezione dello spettacolo si snoda in una serie di momenti nettamente
distinguibili tra loro, dai movimenti più scomposti ai salti sempre più elevati
a, di nuovo, liperattività dei movimenti più rapidi e scoordinati, e così via,
fino al buio silenzioso che segna il passaggio alla terza e ultima sezione.
Chiude il cerchio e lo spettacolo, Solo 2
– titre en cours, in cui Dalila
Belaza, sul rumore di fondo di un vento forte e costante, crea una
partitura coreografica che pur richiamando inequivocabilmente quella di Solo 1, se ne distingue decisamente.
Dapprima una camminata “al ralenti”, dal proscenio verso il centro della scena,
poi, stabilita quella posizione sul palco, comincia una serie potenzialmente
infinita di passi compiuti girando su se stessa e descrivendo al contempo dei
cerchi concentrici sul suolo. In un meccanismo ipnotico che anziché stancare ed
esasperare, incanta lo spettatore, come partecipe di un rito esoterico
ancestrale e nuovo insieme. In una rappresentazione coreografica siffatta, la
musica e il rumore sono ancora un supporto del movimento, ma non in senso
convenzionale: lungi dal costituire un vincolo per il movimento ne sono al
servizio, utili più a veicolare unatmosfera che un ritmo da seguire. Le trait del titolo è allora quello dunion, tra le diverse strofe della
poesia scenica della coreografa algerina, ma anche tra le danze tradizionali
algerine, presenti in forma per così dire sublimata e la danza eterea proposta
dalle sorelle Belaza, che dopo anni di duetti, scelgono stavolta di danzare
ciascuna il proprio solo, divise
eppure legate da quel trait (dunion) invisibile eppure così evidente nella
similitudine delle coreografie rispettivamente proposte.
MK ©Andrea
Macchia
Il giro del
mondo in 80 giorni
è la nuova proposta di MK (coreografia
di Michele Di stefano), compagnia
italiana di danza contemporanea che ospita al suo interno danzatori di varia
età e formazione e al cast originale aggiunge ad ogni nuova produzione artisti
che offrono il loro apporto al progetto coreutico del gruppo. Già noto sulla
scena internazionale, lensemble MK, con lo spettacolo ispirato al romanzo di
Jules Verne, mette in scena un singolare itinerario allegorico intorno al
mondo, attraverso varie civiltà, popoli e tradizioni. In questottica gli
oggetti di scena divengono metonimia di realtà etnografiche diverse: così, se
la tenda da campeggio in scena sin dallincipit
e le giacche impermeabili indossate dagli interpreti per una parte dello
spettacolo, rievocano lidea del viaggio e dellavventura, il golf (un
danzatore in perfetta tenuta da giocatore, poi un cesto di palline scaraventate
a terra, che invadono la scena) è il simbolo di un occidente borghese e
standardizzato, così come i calici che un performer
in vestaglia estrae ostentatamente dalle proprie tasche; mentre il cappello di
paglia ci parla di un oriente povero ma ricco delle sue tradizioni. Lo stesso
linguaggio coreografico diviene oggetto di riflessione e insieme una sorta di “viaggio
nel viaggio”: dalla danza della pioggia che una delle danzatrici della
compagnia esegue (accompagnata dal sottofondo di un temporale e gocce dacqua
vaporizzate in scena), alla parodia delle danze polinesiane che altri due
interpreti, pareo in vita, compiono di fronte al pubblico. Come si evince già
da quanto detto sinora, lironia è un elemento presente anche in questo
spettacolo: ne sia prova incontrovertibile la divertente scena sui rumori della
natura, in cui sulla registrazione del suono dambiente di una campagna abitata
da oche e altri volatili, due danzatori suggeriscono attraverso la gestualità “a
scatti”, la condizione animale. Tra rumore, espressione verbale sul palco e
non, trovano spazio anche i quattro elementi della Natura, stigmatizzati nella
sabbia sparsa al suolo a inizio spettacolo, nellacqua vaporizzata in scena,
nel fumo nero diffuso dai bocchettoni sul pavimento, nello spazio sondato dal
gesto. Disordinato affastellarsi di momenti diversi, eseguiti sia
contemporaneamente sulla scena, che in sequenza, lo spettacolo manca di una
coerenza intrinseca. Si tratta certamente di un effetto voluto, a resa della
multiforme esperienza, insita nella stessa concezione di un viaggio intorno al
mondo, tuttavia quello che vediamo nel complesso manca di una sua organicità,
di un filo conduttore che se anche non deve spiegare, almeno giustifichi in una
qualche misura, quanto vediamo. In ciò sta insieme il pregio e la pecca della
performance. Non si vuole qui stare a sindacare sul significato di ogni singola
scelta scenografica o performativa, ché nessun viaggiatore alla scoperta di un
“nuovo mondo” ha saputo comprendere tutto quanto conosceva al primo sguardo,
tuttavia negare una linea guida allinterno dello spettacolo stesso, è un atto
di profondo egoismo, che viene meno alla funzione di comunicazione alla radice
di ogni forma darte. Certo questa sensazione di caos deriva anche dalla qualità
di movimento dei danzatori, che tanto varia dalluno allaltro. Spicca tra
questi, per linnegabile preparazione tecnica oltreché per la fisicità e
leleganza delle linee, Laura Scarpini,
danzatrice stabile allinterno della compagnia, che da sola vale senzaltro la
visione dellintera serata.
A
conti fatti, tra gli spettacoli visti nellambito di Fabbrica Europa 2012, troppo
spesso lironia diviene una sorta di atout
che autorizza ogni tipo di messinscena e movimento, generando così lequivoco
di fondo per cui tutto è danza, al di là di ogni ipotesi di senso. Sta bene, ma
si lascino allo spettatore per lo meno latmosfera, lemozione della visione, la
suggestione estetica, giacché, se vengono a mancare anche queste, lArte non è
più tale e lo spettatore perde con essa il suo stesso status di pubblico. In
questo senso allora, tra le coreografie visionate, quello che più e meglio ha
saputo interpretare unistanza di rinnovamento – oltre il senso eppure ancora
Arte, nella misura che si è detto – rimane la proposta di Nacera Belaza, così
suggestiva, persuasiva e malinconicamente espressiva.
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