È sempre confortante e appagante assistere a spettacoli in cui la
genialità autoriale si sposa alla sensibilità interpretativa e chi va in scena
non è solo un eccellente esecutore di una creazione altrui ma trasferisce in essa
il proprio peso specifico rendendola sua pur nel rispetto dellautore. Autore
che, a sua volta, calibra la sua opera pensando a chi le darà corpo e anima. Un
patto fra artisti, un reciproco scambio allinsegna dellarte, in questo caso
tersicorea, che esalta e coinvolge.
Questa la chiave di lettura di 6000
miles away, lattesa prima nazionale della stagione di danza del Teatro
Comunale di Modena con Sylvie Guillem,
icona della danse decole e oggi nuova stella della danza
contemporanea. Una splendida quarantasettenne che fa tesoro della formazione
accademica per cimentarsi da poco meno di un decennio nellespressività coreutica
contemporanea. Espressività che lei plasma alla luce di uno stile classico
eppure moderno continuando a regalare forti emozioni e a mostrare cosa sia la poesia
del movimento.
Un concetto astratto che sinvera nella forma coreografica di Rearray e Bye, i due lavori creati per la Guillem da William Forsythe e Mats Ek,
e anche in 2752” di Jiří Kylián, ballato da Aurélie Cayla e Lukas Timulak, che, direttamente e indirettamente, esaltano le doti
della ballerina francese. Quelle indiscutibili doti che ben conosciamo nel più
nobile e aulico repertorio classico ma che in quello contemporaneo rappresentano
un valore aggiunto per la capacità che ha Sylvie di modulare il movimento e trasformarlo
in poesia.
E se non meraviglia che Ek dica che in lei “cè qualcosa di sacro” e
“una vena di vulnerabilità che rende tutto molto emozionante”, lo stesso vale
per Forsythe quando confessa di sentirsi “totalmente rapito dallintelligenza”
dellarte di Sylvie che “rende tutto naturale” perché “sa come si danza”.
Il segreto della bravura della Guillem, ieri nel classico e ora nel
contemporaneo, sta proprio in questa sacralità e naturalezza di ciò che fa in
quanto ha colto appieno il senso della danza come massima espressione di un
corpo poetico, in questo caso il suo, ma anche modello per danzatori che
abbiano voglia di confrontarsi con la lezione di una delle più grandi tersicoree
del nostro tempo.
6000 miles away, salutato da
applausi calorosi e convinti a Modena e in cartellone alla Biennale Danza di
Venezia il 22 giugno, è un omaggio della Guillem allamato Giappone colpito
dallo Tsumani. Unoccasione per radunare tre calibri da novanta della
coreografia europea del secondo Novecento in un trittico dautore a cominciare
da Rearray, il quarto lavoro creato
su misura per lei da Forsythe.
Rearray è un duetto in cui
la Guillem ha al suo fianco Massimo
Murru, étoile del Teatro alla
Scala, guest di prestigiosi corpi di
ballo internazionali e suo partner prediletto. Massimo, con leleganza che da
sempre lo contraddistingue, è complice di Sylvie in questo lusus coreografico su musica di David Murrow. Un raffinato gioco
intellettuale in cui lallusività dei
chiari riferimenti allApollon di
Balanchine accentua il postclassicismo di Forsythe nei legati accademici destrutturati
e in uno spazio scenico perfettamente consono allastrattismo cinetico
forsythiano e alla sublime resa dei due interpreti in pantaloni e maglietta,
accarezzati dalle vellutate luci di Forsythe.
Di tuttaltro genere è Bye di
Mats Ek sullArietta dalla Sonata in do minore
di Beethoven. Terza coreografia firmata da Ek per la Guillem, Bye è una sorta di monologo interiore di
una donna abbrutita dalla routine quotidiana
con golfino, gonna ampia, scarpe pesanti, capelli raccolti in una treccia
demodé, che nascondono e negano la sua femminilità. E mentre uno specchio
riflette la sua immagine ordinaria e trasandata che si libera delle goffe
scarpe, simbolo di impacci e catene psicologiche, il cambio di prospettiva
delle video proiezioni la vede in mezzo alle gente nel tentativo di riconoscersi
e dare un senso alla sua vita. Alla fine con un semplice saluto Sylvie si
lascia inghiottire dalla folla virtuale congedandosi dal pubblico e dallo stile
della danza di Ek. Uno stile basato sulla
gravità del peso del corpo che affonda nei generosissimi pliés, su nervosi e scattosi slanci di gambe e braccia, su linee spezzate,
su movimenti non finiti, su riconoscibilissimi stilemi di un modo di danzare che
ricerca la misura umana e la poesia del corpo. Quella poesia che materializza
nella carismatica presenza di unartista straordinaria, esaltata dalle luci di Erik Berglund e premiata dalla Critica
Inglese come migliore interprete femminile del 2011 nel contemporaneo.
Quello stesso contemporaneo che vede agire anche Aurélie Cayla,
protagonista assieme a Lukas Timulak, di 2752
di Jiří Kylián. Un intenso duetto sullimpossibilità di vivere appieno e in
sintonia il rapporto a due.
Accompagnato dalla musica di Dirk Haubrich, ispirata a temi di Gustav
Mahler, questo passo daddio rappresenta la conflittualità dellamore in
unatmosfera quasi metafisica, accentuata dalla delicate luce di Kees Tjebbes. Un amore fatto di abbandoni
e ritorni, di dolcezze e incomprensioni, che assegna alla danza il compito di esprimere
la complessità del legame tra luomo e la donna e lincomunicabilità che lo
contraddistingue in un mare di soffocati silenzi e urla implose. Un urgenza
sentimentale che la sensibilità degli interpreti e il tocco coreografico di Kylián
mette a nudo nelle articolate e dinamiche sequenze contemporanee, eppure
improntate al lirismo neoclassico, nella nudità superiore dei corpi maschile e
femminile, nella ricerca di armonia e bellezza anche in ciò che prelude alla
disarmonia del discidium sentimentale.
Un triste epilogo che vede Aurélie sparire, risucchiata da un enorme telo nero,
e dissolvere nel nulla la speranza di un possibile ricongiungimento con Lukas.
|
|