Presentato
alla 68ª edizione del Festival di Venezia (sezione Controcampo italiano) e tratto
dalla pièce teatrale From Medea, di Grazia Verasani (2001), Maternity blues affronta con coraggio il
tema dellinfanticidio, in un film dal taglio documentaristico, per la sospensione
del giudizio applicata alla narrazione e la scarna fotografia (Francesco Carini). Al contrario la
regia di Fabrizio Cattani sceglie un
modus operandi che nonostante il
minimalismo di fondo indulge a tratti in virtuosismi gradevoli e misurati, i
quali, attraverso lenfasi del decorativismo, recuperano alle vicende narrate
la dimensione mitico-euripidea, evocata sin dal titolo del testo teatrale. A
svelare quanto quello della madre infanticida sia tuttoggi un tabù sociale, è
il fatto stesso che per trovare una matrice storico-mitologica e artistica si
debba far riferimento a un precedente vecchio di secoli: segno questo non tanto
della povertà immaginativa e poetica dei decenni a seguire, quanto piuttosto
dellampiezza di un rimosso che si è andato dilatando, di pari passo alla
maturazione e al preteso progresso della società occidentale.
Senza
voler fare del femminismo spicciolo, è innegabile che grazie e a causa
dellemancipazionismo secondo-ottocentesco (per il quale le donne del tempo lottarono
orgogliosamente), a una donna oggi sia richiesto di essere tante in una. Sotto
la spinta di istanze diverse e spesso anche in contraddizione tra loro, il
prototipo femminile della contemporaneità è una sorta di mostro a più teste e dalle
mille braccia: il fisico della velina perennemente adolescente, servizievole
come una geisha, donna in carriera come la Melanie Griffith del film omonimo,
la verve di una delle tante ironiche presentatrici comiche televisive, ma anche
brava in cucina come una concorrente de La
prova del cuoco, estroversa, versatile, dolce, attraente, competente,
seducente, forte, sicura di sé… e certo, anche e soprattutto, ancora, madre.
©2010 Ph. Nicola Giannotti
In
un contesto siffatto la mamma della tradizione mediterranea che abnega se stessa
per i figli, si rivela una figura in evidente contrasto con gli altri mille
ruoli che le sono richiesti dalla società che lei stessa ha contribuito a
forgiare e ai quali del resto una donna oggi non vorrebbe neanche rinunciare.
Una simile dissociazione non può non generare un monstrum, più di uno a quanto pare: sono queste le protagoniste di Maternity blues, vittime di unerrata e
ipertrofica “distribuzione delle parti” e certo, anche di se stesse. Ambientato
in un ospedale psichiatrico giudiziario, il film racconta con distacco e
finanche comprensione, le storie delle sue pazienti, soffermandosi in
particolare su quattro di esse. Clara (Andrea
Osvart), la protagonista, è il Virgilio che ci guida lungo i gironi di
questo “viaggio infernale”. Non a caso lospedale ha una struttura architettonica
circolare, con i piani che si affacciano ad anello sul cortile interno, lo
stesso in cui si svolgono le sedute di gruppo – di nuovo, in cerchio – spesso
riprese in plongée, come anche il
cadavere di una delle madri assassine.
Fabrizio
Cattani realizza un film che nonostante lintuibile povertà di mezzi, sa “fare
di necessità virtù” e sfruttare al meglio lambientazione claustrofobica,
attraverso la sapienza registica. A partire dallinquadratura iniziale in cui, dallo
sfarfallio fuori fuoco del finestrino di un treno in corsa, emerge il profilo
in primo piano di Andrea Osvart, lo stesso che tornerà in chiusura del film,
poco prima dellefficace didascalia su fondo nero: «quanto possa essere
ostinato e resistente il cuore di una donna». Una scelta visiva che traduce in
immagini il senso di profonda solitudine e allucinazione della protagonista.
Riuscita anche la sequenza che circa a metà del racconto offre una sorta di “specola”
sulle vite dei vari personaggi, dentro e fuori dallospedale, imitando il
mascherino a tendina attraverso la dissimulazione degli stacchi di montaggio:
efficace metafora della vita che comunque, ostinatamente, va avanti, in un continuum indifferente alle singole
esistenze. Decisamente convincenti anche le inquadrature subacquee che
“amplificano” in una scena onirica la vasca nella quale Clara ha immerso in
realtà il solo volto, restituendo così al pubblico la percezione della sua
alienazione e di un senso di colpa onnipresente e insormontabile. Cattani fa
anche un uso intelligente e parsimonioso del flashback, nella duplice modalità visiva – sono le inquadrature che
ripropongono il vissuto delle protagoniste con i figli ancora in vita – e
sonora – con la voce over di un
personaggio, il figlio di Luigi (Daniele
Pecci) nella fattispecie, che dal passato parla di un futuro negato. Peccato per quella caduta di stile a tre
quarti della narrazione: la scena in cui Eloisa (Monica Birladeanu) canta la canzone dedicata al figlio durante la
festa di Natale, in un attimo sprofonda nel buonismo e nel patetismo un film duro
e garbato al tempo stesso. Senza contare il fatto che la voce dellinterprete dun
tratto risulta eccessivamente pulita, svelando così le pecche del missaggio;
mentre il movimento circolare della macchina da presa intorno alla coppia che
balla prima e poi sui volti commossi attorno, afferisce a unestetica da
videoclip che abbassa sensibilmente il tono, anche visivo. Bravi gli
interpreti, tutti, tra i quali merita una menzione speciale Marina Pennafina, per la verità che è
capace di infondere alla sua Vincenza.
Sorta
di tranche de vie cinematografica, Maternity blues ci consente di fare un
tratto di strada accanto a queste donne-mostro, restituendo loro lumanità che
si sono negate compiendo un atto che è frutto di una volontà di annullamento,
piuttosto che di punizione dellaltro. Appaiono così, più che carnefici,
vittime di un contesto sociale che, al di là delle mille parti che assegna a
ognuna, le riconosce ancora soltanto, o comunque in primo luogo, come madri.
Negando la condicio sine qua non
(lesistenza dei figli) del loro ruolo di madri, esse annientano in realtà se
stesse, in un sorta di contrappasso autoimposto, il cui fio si rinnova,
insostenibile, ogni giorno.
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