I
frammenti di vetro di una bottiglia in mille pezzi che si ricompongono al ralenti, mentre la macchina da presa
“aggiusta” il quadro con un breve movimento allindietro, verso il basso e la
musica si fa martellante: così si apre Diaz - Don't Clean Up This Blood, il
film di Daniele Vicari sui dolorosi
fatti avvenuti a Genova il 21 luglio 2001 quando, durante il G8, gli scontri
tra manifestanti e forze dellordine degenerarono in un gioco al massacro, a
danno dei primi. La stessa sequenza
torna come un mantra a sottolineare i ripetuti flashback che segnano la narrazione, creando un interessante
andirivieni temporale, che va oltre la mera produzione della suspense in vista
del climax dellirruzione della
polizia nella scuola Diaz di Genova. Difatti il racconto torna indietro anche
“a freddo”, dopo lepisodio stesso, recuperando quei fili della trama lasciati
in sospeso, per ricondurre tutto e tutti a quellincontro-scontro fatale,
sanguinoso, letale.
Registicamente
il film ha molti pregi: dalla già citata sequenza in slow-motion e in rewind,
alle maestose, efficaci panoramiche notturne quasi in plongée sulle strade di Genova (in realtà la maggior parte del film
è stato girato in Romania), con le luci blu delle automobili della polizia, sinistri
presagi che irrompono nel buio. Ancora, notevoli la sapiente distribuzione di
immagini più “sporche”, in cui la fotografia si sgrana ulteriormente a simulare
il reportage giornalistico; il montaggio rapido; le panoramiche a schiaffo; i
brevi movimenti di macchina che accompagnano i dialoghi; luso ben calibrato
della macchina a mano; la luce abbacinante delle sequenze ambientate al comando
di polizia, in netto contrasto con loscurità delle irruzioni notturne; le
toccanti inquadrature di Alma (Jennifer
Ulrich) in chiusura del film, la mano sulla bocca a coprire le tracce di un
incubo non ancora finito. Eppure qualcosa non funziona.
Nonostante
il cast internazionale, che conta fra gli altri il pregevole apporto
professionale di Claudio Santamaria
ed Elio Germano, è in primis proprio la recitazione nel
complesso a non convincere, vittima innanzitutto di una sceneggiatura faticosa,
che mal simula il dialogo quotidiano, intervenendo a sproposito a “condire” il
dettato giornalistico, nel tentativo di assicurare alla trama quel quid cinematografico che la distanzi
dalla mera ricostruzione documentaristica. Gli episodi che intervengono qua e
là a creare laffezione del pubblico nei confronti dei protagonisti, risultano
infatti del tutto posticci, come fossero estratti di altre storie, altri film,
poi apposti a una docu-fiction sul G8
di Genova. Spiace dirlo, ma come se non bastasse, abbondano i cliché che afferiscono a un immaginario
fricchettone e bohémien, velando così
la narrazione di ridicolo – vedi la bella chitarrista del gruppo musicale
girovago con cui uno degli organizzatori del Genoa Social Forum ha un flirt – e, ancora, non si contano i
luoghi comuni, nelle telefonate dei vari poliziotti a casa, ad esempio.
Il
film, forse nellurgenza di raccontare tutto e troppo dello scempio di quelle
giornate, somiglia piuttosto alla didascalica giustapposizione di una serie di
servizi di telegiornale, dimentico di quellistanza di sintesi, imprescindibile
per ogni narrazione cinematografica che esuli dal documentario tout court. Daltro canto il lungo
lavoro dinformazione condotto da Vicari e Domenico
Procacci (produttore del film) sulla base degli atti processuali e di
interviste ad alcuni dei protagonisti coinvolti, è valso al film unattenta e
volutamente estenuante ricostruzione della “mattanza” della Diaz e di quella, a
seguire, nella caserma di Bolzaneto. In effetti nella sua funzione
documentaristica, se si vuole addirittura didattica, Diaz funziona senzombra di dubbio, ché a metà film lo spettatore è
già esasperato dalla (lunga) visione della violenza ingiustificata e del
sangue, saturo dindignazione e sgomento. Ma siamo al cinema e questo, sia pure
di denuncia – e anzi ancor più, proprio per questo – ha il dovere di rispettare
le regole della sua sintassi, pena la perdita di vigore persuasivo in termini
di pubblico: quanto più ampio sarebbe stato il bacino dutenza suggestionabile,
se solo le immagini avessero saputo piegarsi più e meglio ai precetti della
retorica cinematografica!
Dunque
in certa misura Diaz tradisce se
stesso, tarpandosi le ali da solo, scegliendo chissà quanto
(in-)consapevolmente la strada del cinema dessai,
che dalla sezione Panorama della Berlinale 2012 rinuncia al grande pubblico
prima ancora di tentar-lo. Un po come quel sasso che lanciato nello stagno,
non lasciasse onde disperdersi verso gli argini: gli elementi cerano tutti, è
il tiro ad essere sbagliato, ché anche per quello cè una tecnica da
rispettare.
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