Bisognava arrivare alla fine per avere due film “alla Berlinale”, cioè fortemente sbilanciati sui contenuti, discutibili, destinati a dividere immediatamente la critica e quindi a ri-sollevare il problema di fondo di una cinematografia programmaticamente engagé e cioè quella della sincerità (o, capovolgendo i termini, quello della furberia). Tranne indiscutibili unanimità come quella dello scorso anno per Nader and Simin delliraniano Ashgaar Farhadi il più recente percorso delle giurie è stato quello di apprezzamenti più legati allauspicio che alla verifica, più allelargizione che alla sanzione. E stata quindi un alluvione di premi alle cinematografie emergenti, ai paesi umiliati, a giovani donne esordienti. Come nelle vere elargizioni il benefattore si è sempre tirato indietro tanto è vero che il cinema tedesco, pur con eccellenti film, si accontenta di premi marginali dal 1986 (lultimo Orso doro fu appunto in quellanno con Stammheim di Reinhard Hauff) oppure di condivisioni politicamente corrette (nel 2004 con La sposa turca del turco Fatih Akin). Le ultime prove sono dunque quella del giovane ungherese Bence Fliegauf, classe 1974, e quella del coetaneo quebecois Kim Nguyen (War Witch). Assai simili nelle intenzioni e diametrali nello stile. E, soprattutto, con una differenza di fondo che impone una riflessione divergente, parlando luno del proprio villaggio, laltro del lontanissimo mondo ex coloniale.
Rigorosissima nello stile assorbito dal magistero ormai universale dei fratelli Dardenne questa prova viene dopo molti riconoscimenti (tra cui il forse eccessivo Pardo doro del 2007 per Milky Way) ma non ci pare avere le stimmate dello snobismo. Ci pare anzi una felice sintesi formale che non poco deve alle miste esperienze figurative del suo autore. Certo la macchina da presa è ossessiva nella sua indagine sui corpi (pochissimi i campi lunghi), i dettagli sono cosi dilatati da non significare più linsieme e anche il racconto (che pur esiste ed ha una forza di denuncia dirompente) è ampiamente subordinato allapparente ondivaghezza della casualità. Poiché non esiste uno svolgimento drammaturgico coerente ma un accumulo di immagini che paiono comprimere il racconto che alla fine risulta invece chiarissimo nella denuncia dellatroce stupidità umana. Qui incarnata da non troppo lontani episodi di razzismo che hanno preso di mira alcuni rom, uccidendone in raid notturni gli interi nuclei familiari.
Se non ci fosse un incipit inequivocabile che appunto questo ci spiega, guarderemmo le azioni quotidiane del piccolo universo emarginato composto da una donna, un vecchio e due bambini, come lo svolgersi casuale e un po miserevole di gesti di unumanità che sopravvive come sa (e come può): la madre si ammazza di fatica, la figlia cerca di mantenere dignità e qualche affetto, il ragazzo si crea un mondo di piccoli segreti, il nonno vegeta, in attesa del pasto serale. Questa sopravvivenza aspetta il riscatto della chiamata in Canada dove la vita, là sì, può cominciare. Basta aspettare, ancora un poco, che il padre già emigrato abbia compiuto le necessarie pratiche di ricongiungimento. La speranza porta avanti i giorni. Finché una notte tutto si disintegra, nel raid assassino dellinsensato razzismo. Perché questi e non altri? Perché ora? Ma soprattutto: perché? Non ci sono risposte e tutto termina nel freddo rito della vestizione allobitorio punto culminante di un destino non giudicato ma, desolatamente, guardato.
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