Ho assistito a poche rappresentazioni del dramma su Arturo Ui, sosia di Hitler e ne conosco alcune altre edizioni storiche: questultimo spettacolo mi conferma nellidea che la drammaturgia di Brecht – interpretata come un classico e secondo sensibilità contemporanea – possa riacquistare interesse e risonanza confortanti presso il pubblico, nella produzione teatrale odierna, spesso molto carente in responsabilità e bellezza. Con la regia di Claudio Longhi, spazio, parola e musica stabiliscono un accordo raro, creano un avvenimento teatrale in cui gli elementi di suggestione e dintelligenza sono distinti e autonomi, eppure necessari nella fusione risultante. La concezione rappresentativa mi pare concretata in naturalezza congrua, in un gioco di spontaneità controllata; in cui anche listrionismo e la caricatura chiariscono temi e scopi, oltre che procurare divertimento. Insomma, la partecipazione al “racconto” smaccato del progresso del gangster esemplare suscita un senso di stupore e meraviglia, quello a cui lo stesso autore mirava. Seguiamo i misfatti, truci ed esilaranti, di Ui e della sua banda, con linteresse per un film dazione, mentre la logica dei fatti e dei comportamenti “recitati” fa emergere nettamente le connessioni ancor più mostruose a cui la vicenda storicamente allude. Le condizioni della Germania negli anni del nazismo e gli spunti offerti dalla figura di Al Capone, vista in analogia a quella di Riccardo III di Shakespeare, sollecitano il regista, che confessa: «Da subito lArturo Ui mi si è presentato come una lucida parodia delle violente (s)ragioni della borghesia capitalistica: una parodia di irresistibile (quanto agghiacciante) comicità».
Il Programma di sala riporta due colonne, analitiche e riassuntive della lettura e dellinterpretazione: «che cosa avviene sulla scena», trova rispondenza in «che cosa avvenne nella storia». Le coincidenze più profonde, si svelano proprio appassionandosi al gioco degli attori, così che la partecipazione divertita alla narrazione del presente spiega il senso completo di quella del passato. Lo spazio scenico è il palcoscenico intero. Muri dinterni o grattacieli sono costruiti col “Lego”, in formato gigante, delle cassette di frutta, usate al Mercato dei Cavolfiori, messo in bella mostra sul palcoscenico con tante teste bianche dellortaggio. La chiave spettacolare è fornita nel Prologo (non riservato al solo Buttafuori) ristrutturato coralmente per presentare tema e personaggi della rievocazione situata negli anni Trenta. Lambientazione americana, fra Chicago e Cicero, nasce dai costumi (in calchi depoca riconoscibili) e dal primo song, cantato in parte in tedesco e inserito in un cabaret un po caotico, grandioso e sguaiato al contempo. Lo stato allarmante della società è bruscamente descritto da uno stupro per la strada, orrore quotidiano quasi dato per scontato. In seguito, certe sequenze ricalcano un andamento cinematografico, come lincendio del magazzino di Hook (analogo a quello del Reichstag), presentato in diversi “piani” e “campi” di visione. Il Trust dei Cavolfiori, impersonato da Givola, Clark e Flake, dopo la Grande Crisi intraprende il risanamento del proprio commercio ricorrendo alla corruzione, coinvolgendo Dogsborough, boss della ristorazione. Anche Arturo Ui, gangster in ribasso, cerca rivalsa inserendosi negli intrallazzi del mercato ortofrutticolo. Dallora, la lotta per il potere assume aspetti cinicamente tragici.
Le “stazioni” della scalata si susseguono con lapparente precisione di un meccanismo ineluttabile, ma evidentemente frutto di precise responsabilità personali, fino alla conquista del potere supremo. Appare importante a tale comprensione anche la riscrittura drammaturgica, concertata da Luca Micheletti in vista di recuperi e accostamenti molto funzionali alla messa in scena. Le scelte del dramaturg determinano dunque un risultato probante, sia per gli snodi, le trasfusioni, i raccordi testuali; sia per la resa personale di Giuseppe Givola, fiorista-gangster. Le doti vocali di Micheletti, soprattutto canore, eccellono nella presenza continua e versatile del personaggio Givola, che trapassa dallagilità perversa del lestofante alla malizia e al sarcasmo dellimbonitore o del chansonnier, modello del malavitoso temerario. E inoltre, offre un esempio straniato e grottesco del ruolo del “cantante”. Affiancato, in codesta Compagnia di giovani dalla maturità stupefacente, da Lino Guanciale (Roma), luogotenente di Ui anche in versione “fantasma”; da Nicola Bortolotti (Clark e Fish) e da Giorgio Sangati (Sheet e Giri), tutti contagiosi nel diffondere i loro acri umori e provocazioni in critici sberleffi, in icastici tipi a tutto tondo.
La presenza di Umberto Orsini è decisiva per la facoltà di sottrarsi al protagonismo invadente, inerente al suo ruolo. Perciò, diventa grande e complessa, nella severità e nel contegno, la sua prestazione, sintesi mimica (con la maschera esaltata da pochi tratti – baffetto e sopracciglia appena) ed espressione vocale mutante, in registri bassi, rochi, spezzati, farfuglianti, fino allautoritaria imposizione di sicure volute persuasive, petulanti, percussive, nelle prolusioni pubbliche dellincipiente dittatore. Lapprendistato alla dizione efficace di Ui si svolge sotto la guida di un Attore, da Orsini stesso interpretato: è un espediente col quale Ui, al momento, è tenuto da una controfigura, sfruttando un trasparente e lallievo già ben esperto si cimenta nel discorso shakespeariano di Antonio. La musica è ulteriormente efficace e godibile nella coerenza dello spettacolo. Ricorrono spesso i songs, sullaria principale dellOpera da tre soldi di Weill, alternandosi a quelli originali di Hosalla. Lesecuzione è per fisarmonica, sassofono e banjo e negli arrangiamenti di Olimpia Greco sono compresi brani di Chopin, Eisler, Hollaender, Nelson, Sousa, Spoliansky e Strauss. Si sviluppa così un collage, sintetico del repertorio brechtiano più noto, sfruttandone mnemonicamente il sedimento delle opere precedenti, e altri apporti. La buffa e mordace parabola satirica sulla corruzione del potere – rappresentata con marcature stridenti e qualche eccesso (o goliardia, come la merda spalmata sulla barba di Dogsborough prima della rasatura) tanto da dividere il pubblico (con qualche transfuga insofferente, durante la recita) – ben rende la comicità di cui Brecht si serve come arma storica e critica, tramite il ritmo affabulante e visivo dun varietà coinvolgente anche la sala, quando vi scendono gli attori. Il monito finale è sottratto ad ogni moralismo e seguito da una breve appendice, presa da un Coro di Mahagonny, capace di diffondere malinconia, oltre leco di episodi segnati da tanta disperata, universale violenza.
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