Nel carcere romano di Rebibbia, nel braccio di massima sicurezza cha imprigiona la feccia della criminalità (nessuno condannato a meno di ventanni, cè pure lergastolano in regime 41bis) il direttore concede agli ospiti di partecipare ancora allormai consueta attività teatrale e presenta il regista che illustra lopera scelta, il classico, classicissimo e insidioso Giulio Cesare di Shakespeare, classico quantaltri mai nellirrisolto dibattito sulla libertà e sul rapporto tra potere politico e individuo, insidioso poiché tocca il nervo più scoperto dei prigionieri che ogni giorno si misurano con le conseguenze del loro conflitto con lautorità costituita.
Dopo linerte La masseria delle allodole presentato qualche anno fa al festival berlinese, questultima prova dei fratelli Taviani Cesare deve morire è una bella sorpresa per energia virile e umiltà di narrazione. Le pretese avrebbero potuto essere tante, e loriginalità poca, nella trasposizione filmica di una delle, ormai tante, rappresentazioni carcerarie: pilota il carcere di Volterra e il regista teatrale Armando Punzo, questi esperimenti a metà tra larte e la riabilitazione sono ormai nobile merce consueta. E invece tutto va bene, con una innegabile sincerità di fondo che permea ogni (semplice) immagine che allontana il macigno dellovvietà metaforica e restituisce il teatro alla sua primigenia funzione catartica senza troppi ideologismi, e al cinema la sua elementare funzione di narrazione senza alcuna belluria. Limpianto narrativo è semplicissimo, quasi trasposizione lineare di un diario di lavoro, la suggestione, proprio per questo deriva da una sorta di “verità” esposta senza proclami.
Dopo una presentazione da casellario giudiziario con volti e nomi associati alla pena e dopo aver quindi permesso allo spettatore di familiarizzarsi con fisionomie così lontane dalla pratica attorica, si passa alla scelta dei ruoli e la macchina da presa lavora sostanzialmente sui volti, volti veri che non aspirano a rappresentare né dimostrare nulla salvo forse, dopo il necessario periodo di comprensione di un testo lontanissimo dalla pratica di vita, ad esprimere unadesione difficilmente definibile, forse al senso più profondo della tragedia, forse, semplicemente, al gioco del proprio personaggio. Ed è questo gioco che i registi seguono, nella selezione efficace dei punti nodali della tragedia fatta dallallestitore teatrale, alternando lillusione dellarte alla cronaca della vita quotidiana che continua con i suoi riti metodici e crudeli. La parte forse più significativa, ma, lo ripetiamo, senza insistenze né proclami, è il ritorno nelle celle quando, ad uno ad uno, dopo lesaltazione della fuga (almeno quella da sé, attraverso linterpretazione del personaggio) i detenuti rientrano nelle loro celle e i secondini (gli stessi secondini prima coinvolti nellemozione della finzione) riprendono il loro ruolo e sigillano le mandate delle porte di ferro.
Tanti e periodici sforzi che vengono fatti per ribadire lattualità dei classici. Senza ammodernamenti, senza divise naziste, senza incresciosi interventi multimediali, ecco un esempio.
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