Il teatrino privato di Giovanna. Una bambina forse non
troppo cresciuta, folgorata nel cruciale passaggio delladolescenza da
voci-luci di cui non si continua a sapere (anche dopo lo spettacolo) la
provenienza. Voci ambigue, di cui non si sente il suono; se ne sente soltanto
leco nella doppia sequenza delle risposte registrate in chiaro alle domande
insidiose dellInquisitore, e dei lacerti colti e ripetuti in scuro dalla phonè rauca, da ragazzo, della
protagonista.
Tutto ciò che avviene e vediamo (la componente visiva è,
come al solito, fondamentale nelle messinscene del Carretto) fa parte del
teatrino privato di Giovanna. Non a caso, lincipit
e lexplicit si corrispondono; solo
che nella chiosa finale manca, sintomaticamente, sulla sinistra del palco, la
figura e il corpo, allinizio quasi in posizione fetale, della Pulzella
dOrleans.
Foto di Guido Mencari
Il dispositivo scenico richiama quello di Pinocchio, meta teatrale gioco onirico
dun burattino che, divenuto bambino per bene, perde la capacità di vivere
recitando. Unarena-prigione limitata a semicerchio da alte pareti lignee color
fango, in cui saprono fessure longitudinali o quadrate, di vario segno o
funzione: ripostigli per i (pochi) oggetti utili eppure decorativi, fonti di
luce-spia o che servono a inquadrare, diversamente, lintero spazio o una
particolare prospettiva che dia risalto (come in un primo piano chiaroscurale)
a una cosa o a un gesto specialmente di Giovanna. Effetti anche di proiezione
dombre sulle pareti palizzate, ad ogni modo costruite con due simmetriche
griglie a destra e a sinistra del fondo ricurvo che saccenderanno a vicenda. Un
pietrisco come pedana, opaco ma anchesso funzionale a baluginare quando
occorre.
In questa arena-prigione (che talvolta, ancora come in Pinocchio, diventa pista circense)
sanima appunto il teatrino privato di Giovanna; per scarti ambigui con rari
riferimenti alla realtà. È un teatrino per bambini un po perversi, attori
duna fiaba crudele (conservando la primitiva fonte dispirazione del Teatro
del Carretto) ma anche grottesca, naïf, dove i balocchi (teste mozze incoronate
di spine o di stagnola, langioletto aureolato di luci) sincarnano in corpi
palestrati, il carceriere in veste di San Michele, sempre al di là della
verosimiglianza.
Le fonti di luce: 6 o più riflettori a vista in alto, oltre
a quelli nascosti dietro le feritoie. Fantasmagoria di colori cupi, anche, che
crea atmosfere: fredda o calda, rossastra.
Foto di Guido Mencari
Nellincipit, sè
detto, Giovanna è accucciata sulla sinistra, i tre nerboruti carcerieri inglesi,
dislocati uno sulla destra, ad ascoltare le voci duna radio che trasmette
unappassionante partita di calcio, gli altri due sul fondo, uno in piedi a
farsi la barba davanti a un riflettore-specchio con un coltello che brandirà
quando risuona lodiato gol della squadra avversaria, animando soltanto il trio
di disappunto. Dalla stessa radio di questo quadro atemporale (anacronistico e
fiabesco) usciranno senza soluzioni di continuità le voci dellinterrogatorio
dellInquisitore a Giovanna, con una chiarezza asettica che, come accennato,
acquista forza recitativa (ma non per ciò, anzi proprio per ciò, realistica)
quando la ragazza androgina ne ripete a stralci qualche frase, con una
selezione mirata, e talvolta interagendo con laltra sua voce e quella della
Chiesa inquisitrice.
Si tratta dun filo conduttore – il nome e la nascita, i
segni e le Voci (con la maiuscola), lobbedienza al loro disegno e la devozione
al Re, lapparizione del guerresco Arcangelo Michele, baciato con il sensuale trasporto
delle mistiche, la violenza della guerra santa, la rivendicazione degli abiti
maschili, la condanna al patibolo e al rogo per interposta persona – slegato da
azioni forti e suggestive, in cui prevale laspetto polisemantico della materia
antropomorfa e oggettuale. La corda, per esempio, calata dallalto con un
cappio in fondo suggerisce limmagine dellimpiccata per un polso, una posa
caravaggesca anche per limpiego della luce; poi si trasforma nella fune che fa
risuonare le campane, ma rinfilato il polso nel cappio quasi sospende la figura
di Giovanna (perno immobile centrale) attorniata dal girotondo dei
carcerieri-autoflagellanti con le magliette trasformate in fruste. Di fatto, il
costume di scena della protagonista non si differenzia molto da quelli dei suoi
carcerieri; più chiaro, con il corsetto che le lascia scoperta la vita e (poco)
la pancia, rassomiglia certe divise giovanili attuali. Le manca la nudità del
torso che invece consente ai tre di offrire ai giochi di luce una scultorea
prestanza virile. E gruppi scultorei, ma di fonte pittorica grazie a
chiaroscurità (appunto) caravaggesche, si formano frequentemente nellazione,
contravvenendo in ciò alla prospettiva fiabesca originaria, dove gli attori animavano
pupazzi come specie di artigianali supermarionette; o integrandola con laltra
che nella storia della compagnia, della sua regista (Maria Grazia Cipriani) e del suo scenografo (Graziano Gregori),
coadiuvati (dal 1988) dal sound designer
Hubert Westkemper, mira piuttosto ad esaltare il corpo attorico
antropomorfo, a partire dallOdissea
(2002) per arrivare al Pinocchio
(2006) e allAmleto (2010).
A questultimo spettacolo saccomuna Giovanna al rogo per la centralità di un attore che sogna la propria recita; spingendosi anche più in là,
perché la stessa Ofelia/Gertrude (Elsa
Bossi) qui veramente è lunica
individualizzabile, seppure enigmatica, i carcerieri (innominati) formando un
coro inferico in cui, però, nel sogno uno dei tre (quasi indistintamente per
leffetto) si erge inaspettatamente, nei momenti di maggiore persecuzione, a
suo difensore.
Foto di Guido Mencari
A ben guardare, dal punto di vista coreografico, il campo
semantico dellattrice si colloca almeno allinizio sulla sinistra, forse
perché le Voci che ne hanno ispirato lazione venivano «da destra, dalla parte
della Chiesa»; si pone sovente anche al centro, come quandè irradiata dal
riflettore-lampadario quadrangolare nella mimesi agita e replicante
dellinterrogatorio; ma passa il limite spostandosi sulla destra quando
schiaffeggia il beffardo carceriere che con in capo una piuma rossa (fra le
poche note di colore acceso) le canta provocatoriamente Lilì Marlene. Da qui la scena di violenza guerresca della Pulzella
che con colpi secchi e sordi e gesti iconografici atterra i nemici per tutto lo
spazio della scena; violenza contraddetta dalle parole (accorate e confuse)
della stessa Giovanna, che utilizzerà il secchio sulla sinistra per lavarsi le
mani. Un guizzo di realtà subito sublimato dal sogno di se stessa a cavallo
(dun magnifico attore) sulla destra, indossata la corazza, e brandendo la
spada in difesa del suo ridicolo Re, mentre pali miranti contro di lei spuntano
dalle feritoie delle pareti. Dopo di che, due momenti forti sono da segnalare: la
già citata apparizione dellArcangelo Michele, quasi un doppio grottesco della
vergine guerriera, ma che la solleva in unimmagine animata sacrale, ed esplode
in piume raccolte e accarezzate dolentemente dalla giovane (un altro breve
risveglio); la culminante apparizione del fantoccio della Madonna, alla fine, dal
fondo che sapre facendola avanzare nella luce e poi retrocedere nel buio della
parete richiusa. Non resta, nel teatrino privato di Giovanna, che seguire quel
simulacro con esaltata abnegazione (che ne cancella il dolore), però al posto
della statua, con tutte le caratteristiche della effige da processione paesana,
subentra la doppia fila di riflettori accecanti che ingoiano la figura umana
della protagonista, prima del buio totale. Quindi la chiosa con i tre
carcerieri ritornati in scena ad attendere il teatro del mondo… Un riferimento al polilinguismo verbale: linglese sbracato degli stessi custodi,
che talvolta ripetono le battute in zoppo italiano, ma anche quello assunto
improvvisamente e in modo imprevisto dalla pulzella nel dialogo agito con lArcangelo,
impersonato dal carceriere-attore che lo canta, trascinandola recalcitrante ma
affascinata sulle note-parole di Joan of
Arc di Leonard Cohen. Mescolanza assurda di ruoli e di
funzioni che conferma lonirica meta teatralità dello spettacolo; dove forse
persino lassenza di naturalistica
sofferenza nella mimica dellattrice protagonista concorre a togliere al
personaggio ogni alone di vittima sacrificale, riconducendola a sublimato pupazzo
dun proprio teatrino mentale. |
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