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Tipi da Periferia

di Gianni Poli
  Moscheta
Data di pubblicazione su web 21/11/2011  
La lunga lezione sul Ruzante, su Moscheta in particolare, partita dallo studio e dall’allestimento di Gianfranco De Bosio in collaborazione con Ludovico Zorzi nel 1950 e ripresa negli anni Sessanta, si estende all’odierna produzione del Teatro Stabile di Genova diretta da Marco Sciaccaluga. La sensibilità aggiornata del regista seleziona orientamenti estetici e soluzioni concrete, per esprimere nel suo spettacolo innanzitutto stati umani elementari. Nota il regista: «Ruzante ambienta il suo capolavoro alla periferia di un borgo, dove i bisogni primari (il cibo, il denaro, il sesso e perfino l’amore) sono il pane quotidiano di personaggi indimenticabili che traducono come meglio non si potrebbe il suggerimento di Montaigne: Cerca l’uomo negli altri, in tutti gli altri anche quando sospetti con buona ragione di vederti davanti solo dei grufolanti animali». L’aspetto più rozzo e ferino del campionario umano, è ben evidenziato nella rappresentazione, al cui centro prevalgono l’impulsività e la conflittualità umane, rispetto al rapporto fra città e campagna e il derivato, fra padrone e servo, contestualizzato ed enfatizzato, in edizioni precedenti, quale scontro di classe.

 



Foto di M. Norberth

 

 

L’adattamento dichiarato in locandina a cura di De Bosio, si rivela una «traduzione» del primo regista e filologo del drammaturgo Angelo Beolco, adottata da Sciaccaluga e liberamente rimaneggiata. Infatti il regista è il maggiore responsabile dell’elaborazione testuale, cospicua ed efficiente, funzionale all’indirizzo impresso allo spettacolo. Essa consiste in tagli, cuciture e spostamenti di senso (compresa la soppressione del personaggio della Vicina), senza tuttavia travisare lo spirito dell’originale, anzi approfondendone la dimensione tragicomica, inerente alla condizione esistenziale dei protagonisti. Nello svolgimento, s’inserisce un intervallo, che interrompe insolitamente l’inizio del monologo di Ruzante (Scena 6 - Atto III), ripreso dal personaggio in attesa e nel frattempo coperto, con meravigliosa invenzione, da una nevicata. La connotazione linguistica dialettale dell’opera è attentamente vagliata, nel ricalcare il padovano (nella versione smussata e aggiornata di De Bosio, ma accogliente echi o calchi del padano alla Dario Fo) e nell’approssimare il bergamasco (similmente di convenzione) di Tonin. La verifica preventiva dell’intervento registico attesta la straordinaria intelligenza analitica e interpretativa applicate al complesso problema estetico - in accenti, sottolineature e omissioni eventuali - sicché è convincente l’esito in palcoscenico.

 



Foto di M. Norberth


 Tutta la rappresentazione emana una chiarezza mirabile di tessuto, dall’esposizione tematica nel Prologo, non pronunciato da un Villano, ma distribuito fra i quattro personaggi. Quattro interpreti ed altrettante voci solidali nell’efficace introduzione pedagogica sulla convenzione teatrale, in citazione brechtiana, rilevabile nel titolo leggibile in apertura sui panni stesi. Per poi chiudere con gesti più decisi ed espliciti affidati a Ruzante, al momento della composizione pacifica, ma amarissima, dei conflitti della commedia. Gusto e sensibilità contemporanei permettono a codeste figure eccessive e arcaiche di apparire «vere» nella palese  finzione fantastica dei ruoli. Il Ruzante di Tullio Solenghi evita il pericolo di slittamento istrionico o parodistico, compiacimento d’autocitazione: è un debole, infine sconfitto che paure e carenze soffre sinceramente: piange, impreca, si dispera, promette e non mantiene; frustrato, vittima, ma complice, in una storia di elementi (i bisogni primari denunciati da Sciaccaluga) che lo trascendono e che vive con maschera mimica e gestuale molto duttile. Una misura, insomma, di inaspettata sobrietà ed enfasi contenuta, proprio nei momenti dell’oltranza o della comicità smaccata, quali  il tentativo di suicidio con mezzi iperbolici d’autolesionismo rozzo e impotente e dell’autocannibalismo; la serenata del travestito napoletano che sfoggia il moscheto nel suo parlato; o il furioso duello verbale (ma con i sassi in mano) del villico contro il prepotente Soldato. È però Menato a guidare a proprio vantaggio gli eventi. E Maurizio Lastrico lo fa con puntiglioso eppur congenito distacco, consapevole intento e puntuale efficacia. Tant’è che del ricomposto dissidio sarà infine il più felice fautore e beneficiario, riottenendo i favori della donna un tempo già sua. Tonin è interpretato da Enzo Paci, soldato un po’ sopra tono, eccitato dall’offerta insperata di Betìa, dopo la truffa subita dal pure maldestro Ruzante. Il suo parlare bergamasco è intonato a una dizione stentorea e tronca, innestata su un portamento tronfio e marzialmente orientaleggiante. Ma è Barbara Moselli in Betìa la rivelazione, per le sue doti espressive eccezionalmente estese e sorprendentemente mature, finora inesplorate. Sia che tenga a bada, volitiva e sfrontata, i suoi pretendenti, acuendone le brame e vellicandone le vanità; sia che ascolti e persegua le sollecitazioni al suo comodo o piacere, sfoggia una ricchezza di tonalità e gestualità straordinaria. Allegria ed abbandono (quando si lava nel fosso o quando accetta una carezza meno violentemente imposta), disprezzo spietato e tenerezza sensuale, compongono la tavolozza del suo carattere impetuoso e intelligente, pragmatico e in sostanza amabile.

 



Foto di M. Norberth


Sul piano visivo, la coerenza con la linea della recitazione è completa nella scenografia, dal notevole rilievo tridimensionale, di Guido Fiorato. S’alza un sipario bianco, si legge RU-ZA-NTE MO-SCHETA su lenzuola bianche ed ecco l’ambientazione originale nel «borgo», banlieue resa più universale in due dimore, un grosso carro sgangherato (per Tonin ) e una baracca su palafitta (per Ruzante e consorte), separati da un camminamento tavolato e attraversati da una roggia irrigata d’acqua autentica. Luogo di passaggio, della precarietà, come nel neonomadismo odierno. I costumi, poveri ma raffinati, recano l’usura variopinta di una miseria antica. Una luce aranciata (raramente candida, se non durante la nevicata), tinge i luoghi dell’eterno scontro fra duellanti risibili. La musica di un settimino di fiati colma discreta qualche cambio di scena e va a prolungarsi in commento sui monologhi maschili. In continuo confronto diretto col pubblico si mantengono gli attori; discriminata invece dalla sua inferiorità femminile, l’attrice; poiché quella di Betìa è la figura più misteriosa – anche per se stessa - di codesta miseranda umanità. Che tuttavia esprime una potente, intima vitalità, nelle emozioni forti (gelosia, attrazione e repulsione, vendetta), emergenti rispetto ai riflessi psicologici o sociologici pure percepibili. Ruzante, contro Machiavelli, come suggerisce questa visione, vuole bene all’uomo, soprattutto al povero, anche se non nasconde gesto e sembiante d’animale.

                                 

Moscheta
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