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Il peccato d’autore

di Fabiana Campanella
  Sette peccati
Data di pubblicazione su web 10/11/2011  

Finale peccaminoso per la Biennale dedicata ai vizi capitali. Domenica mattina 16 ottobre, in giro per le sale splendide dei palazzi veneziani, a partire dagli stucchi della Fenice, si apre con una fessura di luce rossa il percorso tra i vecchi e i nuovi peccati, sui quali i sette “maestri” del teatro europeo sono stati chiamati dal direttore Àlex Rigola a lavorare con i partecipanti ai laboratori dello scorso anno, scegliendone una decina tra i propri allievi e alcuni degli altri. Tutti avevano già comunicato il proprio peccato, in vista di un’elaborazione scenica specifica, a cui apporre firma e tratto distintivo.

 

Il Leone d’oro Thomas Ostermeier aveva scritto in giugno ai ragazzi prescelti di prepararsi su La Morte a Venezia di Thomas Mann, per costruire una riflessione sulla pedofilia. Più di tutti proprio Ostermeier è arrivato a Venezia con un disegno preciso di regia, lasciando poco spazio alla forma laboratorio: il regista tedesco ha impiegato i 6 giorni del festival per provare la mise en espace di un affresco perfetto e calligrafico. Una famiglia borghese di signore svolazzanti di nero e perle si ritrova attorno al tavolo di un ristorante, con al seguito il giovane e turbato Tadzio, una giovane attrice vestita alla marinara. Seduto all’altro tavolo il vecchio Aschenbach, unico “over 50” nei cast dei 7 peccati, l’attore tedesco Josef Bierbichler, duetta con un pianoforte dal vivo e canta il suo sogno conturbante e disperato. L’incrocio di sguardi e il movimento dei piatti di carne al sangue serviti dallo zelante cameriere sono amplificati dal video che sovrasta la scena, separata dal pubblico da una selva di piante da interno.

 

The Slow Lie di Jan Lauwers
 

Costretto a curiosare tra le foglie, più che la lussuria e la pedofilia, lo spettatore avverte il disagio e il piacere del voyeur, filo sottile che percorre i peccati sin dal lavoro di Romeo Castellucci, dedicato proprio al vizio del “guardare”. Attore, il tuo nome non è esatto è una carrellata di indemoniati – veri o presunti – le cui voci soffocate e rauche registrate prima dell’esorcismo vengono riprodotte da un vecchio mangianastri al centro della sala, avviato di volta in volta da un attore diverso per diverse contorsioni su un cubo bianco di polistirolo. Stesso schema per tutti, panna in bocca e inquietante sorriso finale verso il pubblico, tranne che per il demone della “xenoglossia, 1966”, come recita la didascalia: l’attrice nuda e bellissima sotto la luce squadrata della finestra rossa, quasi parla con i suoi orifizi più intimi rivolti al pubblico, che accoglie compiacente il demone della morbosità. Anneliese Michel, Franc Schikermeier, Mary Goold, Jack Sutton, sono alcuni dei nomi che scorrono sullo schermo, mentre alla fine un misterioso francese “possessed” nel 1948 parla di scuola pubblica e soldati americani, e solo alcuni vi riconoscono l’estratto dal discorso di Artaud, morto in quello stesso anno, Per farla finita col giudizio di Dio. In questo lavoro ripetitivo eppure fulminante, che tanto ricorda, per dimensioni ed emozioni, le Crescite della Tragedia Endogonidia, il segno di Castellucci è evidente e brillante, sempre al limite dell’ironia in un mistero troppo grande.

 

Death in Venice di Thomas Ostermeier

 

Sguaiato e disturbante, coerente con il Prometheus Landscape II visto pochi giorni prima al festival, il peccato della violenza proposto da Jan Fabre. Prendendo in giro la mistificazione dell’icona dei gangster, il regista belga capovolge en travesti l’atto di sottomissione delle loro donne, cagne al guinzaglio con vestiti lucidi, peli e trucco della peggior periferia. Ai loro danni le attrici-gangster perpetrano qualsiasi brutalità: tacchi nel naso, sigarette spente sui piedi, calci e lividi che mascherano di crudeltà apparente il più becero maschilismo.

 

Meno estremo, seppur egualmente esplicito, il lamento invidioso delle attrici di Calixto Bieito, che invocano giustizia contro le rivali arriviste e disponibili a tutto, apparecchiate in coro nella sala più palladiana della Fenice. Nel disorganico musical brechtiano inscenato dal ribelle della regia lirica, spicca la simil-violenza sessuale di una bionda attrice tedesca, con microfono al posto del membro maschile: dolce sadismo di rara intensità.

 

Envidia di Calixto Bieito

 

Sempre sulla scia di un voyeurismo dilagante, anche Jan Lauwers piazza una telecamera davanti al volto di un’attrice che si masturba: la vediamo di spalle in fondo alla sala concerti del Conservatorio di Venezia, e in primo piano in video. Ma la raffinata leggerezza del regista fiammingo sposta l’attenzione sull’azione degli attori dietro il volto crucciato sullo schermo, e il pubblico riesce a guardare attraverso e oltre, in questa soave Slow lie di gruppo, che raffigura gli incastri della menzogna e dell’apparire. Di tono completamente diverso il lavoro di Ricardo Bartìs sulla burocrazia, che sfida i luoghi comuni di faldoni polverosi e impiegati addormentati, e gioca con i suoi ottimi attori alla rappresentazione di un Amleto bibliotecario, divertente intervallo sulla società, in un percorso di peccati che descrivono soprattutto l’individuo.

 

Su questa linea sorprende l’intervento di Rodrigo García su «l’incapacità di riconoscere la propria natura di animali solitari»: peccato capitale di supremo narcisismo, dove gli attori ricoperti di bianche tuniche di gomma stile ku-kux-klan, disseminati nel portico del conservatorio, lasciano che gli spettatori siedano ai loro tavolini dove giocano a carte, per scoprire che il gioco è un solitario, e non verranno coinvolti. Nel frattempo, scorrono le voci di strampalati diari: «a tavola eravamo io, Michael Jackson, Amy Winehouse e Steve Jobs. La cosa che avevo in comune con loro è che sono morta».

 

The Holy Gangster di Jan Fabre

 

Cinici e sorridenti i 7 registi, tutti al mixer a divertirsi con le luci, tutti ex enfant terribles con un passato di estetica sovversiva e scandalosa, si compiacciono del loro teatro d’autore, che riempie le sale di tutta Europa. Senza quasi mai peccare di banalità, senza toccare però i veri temi scabrosi del nostro tempo. Più semplice shockare con la lussuria, in 20 minuti, piuttosto che denunciare quelli che altrove sono considerati i mali della contemporaneità: l’indifferenza, l’ignoranza, la superficialità, le bolle finanziarie. Ma in un festival avviato con l’irresolutezza di Amleto nella scena gotica sporca di fango e di noise rock firmata da Ostermeier, nessuno poteva aspettarsi la rivoluzione.



Sette peccati
cast cast & credits
 
 

Sette Peccati alla Biennale Teatro 2011 - 41° Festival Internazionale del teatro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 


Desconocer nuestra propia naturaleza di Rodrigo García 




 
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