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Intervista a Enrico Pieranunzi

di Michele Manzotti
  Enirico Pieranunzi
Data di pubblicazione su web 04/11/2011  

È uno dei più noti pianisti jazz italiani, ma da qualche anno ha iniziato a percorrere una strada singolare. Quella dell'approccio a compositori classici non tanto per una forma di contaminazione, termine ormai fin troppo utilizzato, quanto per ricrearli e cercare nuovi spunti di lettura. Enrico Pieranunzi si è dapprima rivolto a Domenico Scarlatti, con un album uscito tre anni fa dedicato alle sue Sonate per pianoforte. Oggi torna con 1685, l'anno di nascita di Scarlatti, Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Haendel, disco pubblicato dalla Cam Jazz. Lo incontriamo durante la sua presenza fiorentina per la rassegna Piano Hour, ideata dal giornalista Ernesto de Pascale scomparso recentemente e realizzata dal Musicus Concentus.

Bach, Haendel e Scarlatti sono musicisti che hanno lasciato una produzione e dei linguaggi stilistici molto personali...

«E' vero, sono tre compositori dalle caratteristiche differenti. Però è anche vero che c’è un linguaggio, una koiné comune di questi autori nati nello stesso anno. Inoltre due di loro, Haendel e Scarlatti, hanno viaggiato molto respirando atmosfere nuove e morendo fuori dal loro paese natale. Bach è rimasto ancorato alla sua terra tedesca, dimenticato dopo la morte. Fortunatamente Mendelsshon lo ha riscoperto nell'800 e facendo capire a tutti il suo genio. Riunirli insieme per me è stato un passo naturale dopo il disco sul solo Scarlatti».

Parlando di Bach, nel disco c'è molta attenzione a forme come quella dei corali rispetto ad altre più note, tipo la fuga. Come mai?

«Perché ho voluto evitare strade già battute da altri jazzisti. Innanzitutto perché già percorse con grande classe come nel caso di Jacques Loussier alla fine degli anni Cinquanta del novecento, ma anche perché ho voluto lavorare sulla melodia e non sul ritmo. A volte ho ascoltato risultati scadenti di reinterpretazione bachiana nel jazz: ritengo che non esista un elemento swing in Bach. Per questo ho scelto corali più che preludi e fughe dato che mi consentivano di passare a un’improvvisazione e una rilettura di tipo melodico e collegarmi con altri temi. Un metodo che ho usato anche con gli altri due autori».

Haendel è stato un compositore di molte opere liriche, quindi con un spiccato gusto della melodia. Come si è mosso nel suo caso? 

«Ho evidenziato l’aspetto di gioco, di corte delle sue composizioni da tastiera, magari meno note e meno studiate in Italia, più che rivolgermi alle arie d’opera o agli oratori per le quali è giustamente conosciuto. Era inoltre un esecutore di fama e i lavori che ho scelto (il Capriccio in Fa o la Sarabanda in Mi minore) sono di grande valore».

A proposito, sul disco è indicato come Handel, all'inglese...

«Ho visto il suo nome scritto in tre maniere diverse. Alla fine ho trovato giusto che fosse indicato così, anche perché da tedesco divenne inglese, tanto da essere sepolto a Westminster. Londra poi era un centro importante per l'editoria musicale. L'unica pubblicazione in vita delle opere di Domenico Scarlatti (i 30 Esercizi) fu stampata a Londra nel 1739. Altri compositori italiani, come Bernardo Pasquini, trovarono a Londra il modo per far conoscere i loro lavori».

Come mai per alcune composizioni ha usato il fortepiano?

«E' stata un'idea del produttore del disco, Ermanno Basso. Avevo qualche timore, perché lo strumento è così particolare come sonorità che ho avuto l'impressione di romperlo. Poi ho preso confidenza e di tutti e tre gli autori ho affrontato un brano al fortepiano, per completare il mio tributo».

 



 
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